Xi: l’opportunista

mercoledì 29 marzo 2023


Pacifista per caso

E siamo di nuovo a “Caro amico”, caro Xi; caro Vladimir. Tornando così all’indietro nella storia degli anni Cinquanta del XX secolo, quando i nomi si coniugavano in “caro Mao (Zedong)”, “caro Josef (Stalin)”. Sicché, fin da allora, per contrastare il monolite del comunismo internazionale, l’America si andava svenando (letteralmente e, quel che è peggio, inutilmente) con il sacrificio di molte decine di migliaia di uomini, prima in Corea e poi in Vietnam. Immense stragi inferte e subite anche nel XXI secolo, con l’Iraq e l’Afghanistan: altrettanti, gravi fallimenti dell’America e dell’Occidente. Con i risultati rovinosi che ben tutti conosciamo. Ma, l’America e i suoi alleati, cioè Noi, quale lezione abbiano appreso da quella storia? Poco o nulla, stando al clamoroso riavvicinamento tra Cina-Russia dello scorso 22 marzo, con la tre giorni di visita a Mosca da parte di Xi Jinping, per colloqui “epocali” con il neo Zar Vladimir Putin. Stando alle veline delle fonti ufficiali (visto che le cose che contano sono state dette in un riservatissimo faccia-a-faccia tra i due massimi Autocrati mondiali), fino a prova contraria, Pechino non si arrischia a rifornire Mosca di armi e proiettili d’artiglieria. Svicolando per di più, letteralmente, dall’incastro della sottoscrizione di un contratto a lungo termine con Putin, per l’acquisto a buon mercato di forniture energetiche dalla Russia a corto di clienti. Certo, il fatto che Xi abbia mantenuto l’impegno al vertice, “malgrado” la recente condanna per crimini contro l’umanità a carico di Putin da parte della Corte internazionale dell’Aia, incontra almeno due giustificazioni.

La prima, è banale: l’incontro era stato fissato ben prima della pronuncia della Corte stessa. La seconda, invece, che ha una portata più (geo)politica, è meramente opportunistica: serrare sempre più stretto nelle spire dello yuan del Nuovo Dragone un Orso russo a corto di ossigeno, sempre più isolato dal Global West e costretto come Napoleone a impantanarsi nel fango delle trincee in Ucraina. D’altra parte, allungare verso l’Eurasia le catene all’Orso siberiano, tirando per le lunghe un aiuto concreto in forniture di armi, presenta per Xi almeno due consistenti vantaggi. Da un lato, gli evita di andare incontro a una guerra per proxy contro la Nato. Dall’altro, con la prosecuzione di un drammatico conflitto di attrito in Ucraina, Xi sottrae preziose risorse per lo sviluppo economico al Global West e all’America in particolare, distogliendo per di più dallo scenario di Taiwan e dal Mar Meridionale di Cina verso il fronte europeo la spasmodica attenzione di Washington e delle sue poderose forze aereonavali. E così Xi continua a navigare nel suo mare di ambiguità. Ipocritamente, il leader cinese parla di atteggiamento neutrale di Pechino, ma evita in tutti i modi di condannare l’invasione dell’Ucraina e le atrocità commesse dall’esercito russo, malgrado l’Operazione Speciale di Putin violi la sacra bibbia confucian-comunista dell’integrità delle frontiere internazionalmente riconosciute, e della non ingerenza negli affari interni di un altro Paese sovrano. Tenuto conto che nel 2013, in piena contraddizione con la politica attuale di Xi, il Governo cinese aveva garantito il suo aiuto all’Ucraina nel caso il Paese rischiasse un attacco nucleare.

Ed è proprio questa mancata promessa ad avvicinare ulteriormente l’Europa all’America. Sebbene i media di Stato cinesi continuino a veicolare ufficialmente la versione antioccidentale di Putin, per cui la guerra è stata causata dall’espansionismo della Nato, nondimeno gli strateghi cinesi sono perfettamente consapevoli dell’erraticità della politica russa e delle sue deludenti prospettive economiche. Riarmare la Russia, pertanto, significa esporre la Cina a pesanti sanzioni da parte degli Usa e della Ue, i suoi maggiori partner commerciali, minando così alle fondamenta il rilancio economico post-pandemico del Dragone Giallo. D’altra parte, i calcoli strategici di Xi partono dall’assunto che, prima o poi, ci sarà uno scontro diretto Cina-Usa su Taiwan e, per quell’epoca, il regime comunista cinese avrà bisogno più che mai del gas e del petrolio russo e, soprattutto, della tecnologia militare e del supporto diplomatico di Mosca. Pertanto, una sconfitta della Russia in Ucraina, indebolendo il potere di Putin, favorirebbe nello scenario peggiore l’arrivo al Cremlino di un leader e un governo più moderati e filo-occidentali, rendendo instabile il confine occidentale con la Russia, a tutto vantaggio della politica di contenimento degli Usa nei confronti della Cina. Il fatto è che, oggi, al di là delle parole, è davvero iniziata una Seconda Guerra fredda tra Global Sud e Global West.

Per non parlare del “Piano di pace” di cui è promotore Xi, ritenuto inutilizzabile come punto di partenza (parola del The Economist) di una possibile trattativa sia da Volodymyr Zelensky, che da Joe Biden. Del resto, come si può pretendere la fine delle sanzioni occidentali, senza contestualmente richiedere il ritiro delle forze di occupazione russe dai territori occupati? E che dire poi del passaggio secondo il quale “la sicurezza degli uni non può essere perseguita a discapito di quella di altri” e meno che mai “ampliando i blocchi militari”? Temi entrambi già enunciati dallo stesso Xi un anno fa con la sua “Global Security Initiative” presentata come una valida alternativa all’ordine internazionale monopolizzato dal Global West. La particolare attenzione di Xi verso la Russia ha, nel suo caso, profonde radici familiari, come nota The Economist nella sua analisi sui legami storici sinorussi. Infatti, il padre, Xi Zhangun, stretto collaboratore di Mao, aveva preso contatti negli anni 50 con esperti sovietici per la ricostruzione dell’infrastruttura industriale della Cina. Stessa linea di condotta, contraddistinse il regime di Deng Xiaoping quando Pechino venne sottoposta da parte dell’Occidente all’embargo sulle armi dopo Tienanmen. All’epoca, i vertici militari cinesi collaborarono strettamente con la loro controparte russa, acquistando da Mosca almeno dieci miliardi di dollari di armamenti. Fin dall’inizio degli anni 2000, Xi venne influenzato dal pensiero degli accademici cinesi di sinistra e dei giovani leoni rampanti del Partito Comunista cinese profondamente disillusi dall’Occidente, con particolare riferimento alla crisi finanziaria mondiale del 2007-09.

Questa nuova classe dirigente cinese ha progressivamente interinato la teoria revisionista di Putin, per cui il crollo dell’Urss comunista non fu causato dagli errori storici di Stalin, bensì dalla strategia filo-occidentale di Michail Sergeevič Gorbačëv e dalle sue riforme liberali in economia. Da qui, si spiegano forse i più di 40 incontri diretti che Xi ha avuto con Putin, in cui i due hanno avuto modo di focalizzare e condividere la comune idiosincrasia per le democrazie occidentali e l’ossessione dell’accerchiamento da parte degli Usa. Certo, la dimostrazione di incompetenza, impreparazione e inefficacia dell’esercito russo, nonché la presa d’atto della scarsa competitività dei suoi armamenti rispetto a quelli della Nato, ha letteralmente sconvolto gli alti comandi militari cinesi. Del resto, non sono mancate critiche dall’interno dell’accademia e delle università alle colpe storiche della Russia zarista e sovietica, che vanno dall’annessione dal 1860 al 1945 di milioni di chilometri quadrati di territorio cinese, alla strategia di distanziamento di Pechino dall’Occidente attuata dall’Urss, convincendo i cinesi a entrare in guerra contro gli Usa in Corea, scelta che ha causato innumerevoli perdite umane per la Cina. Secondo il professor Feng Yujun della Fudan University (fonte The Economist), la Russia moderna si è allineata alla strategia sovietica di allora alleandosi strumentalmente con la Cina, nei confronti della quale continua a provare un profondo disagio a causa del suo strapotere economico. E, osserva il professore, a beneficiare della combinazione Cina-America-Russia, guarda caso, è sempre il lato più debole del triangolo (cioè, Putin!).

C’è da dire che, in un sistema verticalizzato di potere come quello cinese, questi punti di vista, pur ampiamente condivisi sia negli ambienti universitari che nel mondo degli affari, non hanno un peso rilevante nelle decisioni finali del regime. Del resto, vale il detto “it’s the economy, stupid!”, guardando alle cifre dell’interscambio sinorusso, cresciuto dal 44 al 100 per cento per quanto riguarda le forniture energetiche russe alla Cina, che a sua volta ha aumentato del 12,8 per cento il suo export verso la Russia, con particolare riferimento al raddoppio degli acquisti russi di semiconduttori avanzati per usi civili e militari, e altri prodotti in misura minore di diretto impiego militare, come immagini satellitari, tecnologie di disturbo delle trasmissioni radio e parti di ricambio per aerei da caccia. Anche se, con ogni probabilità, vista la scarsa reazione americana, alcuni di questi accordi sono stati sottoscritti prima del 24 febbraio 2022. Forse, il risultato più tangibile (nel più classico “do-ut-des”) riposa nell’assicurazione data da Putin a Xi di un suo diretto sostegno nel caso di un’azione di forza su Taiwan, poiché la Russia “sostiene con fermezza l’adozione di misure da parte della Cina per salvaguardare la sua integrità e sovranità territoriale”. Come dire: Global West mezzo avvisato, mezzo salvato.


di Maurizio Guaitoli