Nella speranza del massimo della pena

Quando ho letto del massacro di Motta Visconti, una mamma e due bimbi sgozzati come agnelli sacrificali, non nascondo che ho avvertito un attimo di vuoto. Un vuoto dentro, che non sapeva spiegarsi perché un padre e marito di trent’anni dovrebbe trucidare senza pietà la sua famiglia. Tre innocenti, che non hanno avuto nemmeno il tempo di difendersi dalla lama e si sono spenti fra atroci sofferenze.

La mia associazione Acmid, assieme alla sezione Milano/Lombardia, ha deciso di costituirsi parte civile nel processo che si terrà nei prossimi mesi contro l’assassino, reo confesso. E che ha chiesto “il massimo della pena”, ben sapendo che nel nostro Paese la pena non è mai massima. O, meglio, massima come la vorremmo noi. La domanda che in questi casi ci si fa è se esista una punizione adeguata per un delitto di ferocia tale da far rivoltare lo stomaco, se si possa individuare un castigo tanto grande e tanto doloroso per chi si macchia di un’atrocità di questa portata.

Io spero solo che non si metta in campo nessuna attenuante culturale e che la pena venga irrorata senza tentennamenti e che venga istituita una commissione ad hoc per studiare delitti di questa ferocia, come venne fatto per l’infibulazione la cui legge fece giurisprudenza e scuola. La speranza, di fronte a fatti così agghiaccianti, che travalicano l’umana comprensione, è che quantomeno ci si adegui alla durezza che in altri Paesi viene applicata e che non ci si lasci intenerire da discorsi buonisti che tanti danni hanno fatto al nostro Paese e all’Europa.

Per le donne, italiane e immigrate, il cui dramma viene dimenticato non appena si chiudono le urne elettorali. Lasciate, come vittime di un sacrificio ormai quotidiano, al loro destino di violenza e morte.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:09