Rischieremo un nuovo conflitto Stato-Regioni

giovedì 27 ottobre 2016


L’Italia, come è noto, ha un ordinamento di tipo regionale, che è cosa ben diversa dallo Stato federale, in virtù di un sistema caratterizzatosi da una complessa divisione dei poteri tra il centro e la periferia. Le Regioni, non a torto, sono da tempo sotto l’attenzione dell’opinione pubblica, perché hanno un potere enorme, unico ente, oltre allo Stato, con una potestà legislativa tale da condizionare sensibilmente la vita dei cittadini e le competenze degli enti locali. Proprio il ruolo dello Stato e delle Regioni è uno dei punti centrali della riforma della Costituzione voluta dal Governo Renzi. Per comprendere meglio come tale riforma impatterebbe sul nostro sistema, è opportuna una breve ricostruzione storica.

Il dibattito sull’istituzione e sulle funzioni delle Regioni ha interessato lo Stato italiano fin dalla sua nascita. L’idea di un ente intermedio tra Stato e Comune risale, infatti, all’Ottocento. Secondo Giuseppe Mazzini era opportuno contemperare l’interesse per l’unità nazionale con quello favorevole all’autonomia delle Province e delle Regioni, per ciò che riguardava l’attività legislativa, esecutiva e amministrativa aventi ad oggetto materie di interesse locale. Lo stato centrale “intricatissimo e lento” doveva essere reso “più semplice e snello”, attraverso un potenziamento delle energie locali, al fine di “tradurre in atto ogni progresso possibile nella loro sfera”. Già nel 1861, esponenti di rilievo della destra storica come Cavour, Luigi Carlo Farini e Marco Minghetti avanzarono proposte volte a prevedere l’istituzione delle Regioni come consorzi obbligatori delle Province, rette da una commissione avente funzioni amministrative, presieduta da un governatore espressione del potere centrale, essendo nominato dal ministero degli Interni. Secondo la tradizione liberale, nuovi enti locali dovevano comunque essere sottoposti al controllo statale e avere funzioni ridotte alla mera applicazione della legislazione centrale.

Preoccupati della necessità di “fare gli italiani”, per citare Massimo d’Azeglio, si preferì puntare a una forma di Stato unitario fortemente accentrato, di ispirazione francese. L’idea del regionalismo, mai abbandonata e promossa dai sostenitori della questione meridionale, tornò con don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare, soprattutto nell’ottica di risollevare le sorti economiche e sociali del sud d’Italia, ma anche per “gestire” il problema dei confini a nord dell’Italia dell’epoca. Il primo esempio concreto di emanazione di una norma favorevole alla regionalizzazione fu il Regio Decreto n. 1319/1921, che istituì le Commissioni consultive per la sistemazione delle cosiddette Terre redente di Trento e Trieste. Fu allora che si cominciò a promuovere le autonomie regionali.

Il regime fascista, caratterizzatosi immediatamente per un forte accentramento del potere, interruppe qualunque forma di dibattito per tutto il ventennio, ma con la caduta del Fascismo, l’idea di Regione tornò in auge. Durante i lavori dell’Assemblea Costituente della Repubblica Italiana, tenutisi tra il 1946 e il 1948, infatti, uno dei grandi dibattiti tra le forze politiche fu proprio l’istituzione delle Regioni. Se, da un lato, democristiani e repubblicani furono i principali sostenitori di questo nuovo ente locale da affiancare a Province e Comuni, la Sinistra e i liberali espressero la propria contrarietà, i primi perché temevano un freno al rinnovamento economico e sociale del Paese, gli ultimi in quanto storicamente contrari alla moltiplicazione di istituzioni pubbliche intermedie tra Stato e Comune; fece parzialmente eccezione Luigi Einaudi, il quale, comunque, vedeva la Regione come alternativa alla Provincia, temendo per i cittadini non sostenibili gravami amministrativi e fiscali. Dopo un complesso lavoro della Commissione dei 75, detta così perché composta da settantacinque membri incaricati dell’Assemblea Costituente, si arrivò ad un progetto concorde di riforma mirante all’attribuzione alle Regioni di un complesso di poteri meno consistente di quello previsto dallo schema originario che, invece, venne recepito negli statuti delle Regioni ad autonomia speciale. L’onorevole Bartolomeo Ruini, presidente della Commissione dei 75, parlò della “innovazione più profonda introdotta dalla Costituzione”. Nel frattempo erano state plasmate le Regioni a statuto speciale, in genere per frenare le incalzanti spinte separatiste, dapprima con l’istituzione di Alti commissari, nel 1944 per la Sardegna e nel 1945 per la Sicilia, e l’introduzione di un particolare regime di autonomia amministrativa, nel 1945, a favore della Valle d’Aosta (con la simultanea eliminazione della Provincia di Aosta). Con il Regio Decreto legge n. 455/1946, la Sicilia ebbe il suo statuto speciale, prima dunque del referendum del 2 giugno sulla scelta tra monarchia e repubblica, nonché in anticipo rispetto all’approvazione della Costituzione della Repubblica Italiana, avvenuta il 22 dicembre 1947. Il modello siciliano influenzò gli statuti delle altre autonomie, emanati con leggi costituzionali ad hoc nel 1948 (ad eccezione del Friuli Venezia Giulia il cui statuto fu approvato soltanto nel 1963).

In conclusione, il titolo V della Costituzione del 1948, ad eccezione di Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta, dotate di particolare autonomia ai sensi dell’art. 116, istituì quattordici Regioni a statuto ordinario (Abruzzo e Molise saranno divise solo nel 1967) dotate di una potestà legislativa che potremmo definire “concorrente”. Ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, infatti, per alcune materie lo Stato poteva fissare i principi fondamentali, mentre tutti gli altri aspetti erano riservati alla potestà legislativa regionale. Inoltre, lo Stato poteva demandare alle Regioni il potere di emanare norme attuative in materie di volta in volta individuate dal legislatore nazionale. Benché introdotte nella Costituzione, le Regioni faticarono molti anni prima di vedere applicati i nuovi principi dell’ordinamento italiano e, nello specifico, le disposizioni transitorie e finali, sulla base delle quali si sarebbero dovute tenere le elezioni regionali entro un anno dall’entrata in vigore della Costituzione.

La novità del regionalismo in Italia trovò, infatti, un serio ostacolo alla sua implementazione, a causa della volontà politica di tutelare la centralità del Parlamento nel nostro ordinamento, già a partire dall’elezione delle Camere avvenuta nel 1948. Come evidenziato dal professor Gianliborio Mazzola, tale “struttura innovativa fu contrastata dalla dura opposizione della nostra tradizione giuridica ed istituzionale che riteneva ovvio che non si potessero riconoscere alle Regioni funzioni legislative perché quest’ultime bisognava riservarle al Parlamento quale espressione della volontà generale dello Stato”.

Nel biennio 1971-1972 vennero approvati gli statuti di tutte le Regioni a statuto ordinario (per ultime Abruzzo e Calabria), a seguito dei quali finalmente si ebbe la “prima tappa” dell’effettivo processo di attuazione dell’ordinamento regionale. Tra il 1975 e il 1977, attraverso la legge 382/1975 e il dpr 616/77 si definì un più chiaro quadro di trasferimento e deleghe delle funzioni amministrative dello Stato a favore delle Regioni, ma anche degli enti locali, basandosi sul criterio dei settori organici (ordinamento e organizzazione amministrativa, servizi sociali, sviluppo economico, assetto ed utilizzazione del territorio). Si susseguirono leggi e decreti legislativi di grande rilevanza per il rafforzamento sostanziale delle Regioni e degli enti locali. La più importante fu la cosiddetta legge Bassanini e l’attuativo decreto legislativo n. 112/1998, con cui venne valorizzata “l’amministrazione locale come amministrazione generale di base”, attraverso un trasferimento completo delle funzioni e dei compiti amministrativi, senza i passati ritagli di competenze a favore dello Stato.

Alle Regioni e agli enti locali, sulla base di una serie di principi tra cui l’aristotelico e tomistico principio di sussidiarietà, novità dell’ordinamento giuridico italiano introdotta su ispirazione del diritto comunitario, erano state conferite “tutte le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori in atto esercitati da qualunque organo o amministrazione dello Stato, centrali o periferici, ovvero tramite enti o altri soggetti pubblici”. La legge, anche se impropriamente, venne definita come una “riforma federale a Costituzione invariata” o “federalismo amministrativo a Costituzione invariata” e ispirò la legge costituzionale n. 1/1999, contenente disposizioni per “l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni”, e la legge costituzionale n. 3/2001, contenente “Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione”. La legge costituzionale n. 3/2001, approvata a maggioranza assoluta dal Parlamento, per la prima volta senza il consenso delle forze di opposizione, e confermata dal successivo referendum, ha innovato profondamente le competenze tra Stato e Regioni.

Per quanto concerne la potestà legislativa, le Regioni sono state poste affianco allo Stato, ciascuno nell’ambito delle rispettive competenze. Il nuovo articolo 117 della Costituzione, infatti, ha determinato una tripartizione delle competenze legislative, prevedendo: una potestà esclusiva in capo allo Stato, per quanto concerne alcune materie puntualmente elencate; per fare qualche esempio, si tratta di politica estera, difesa, sicurezza dello Stato, moneta, tutela della concorrenza, legislazione elettorale, cittadinanza, tutela dell’ambiente e dei beni culturali; una potestà concorrente tra Stato e Regioni: in tal caso lo Stato si limita a emanare norme di carattere generale, poi disciplinate nel dettaglio dalle Regioni stesse; una potestà esclusiva in capo alle Regioni, relativa a tutte le materie non esplicitate dall’art. 117 riguardo alla potestà esclusiva statale e a quella concorrente. Negli anni, fino ai nostri giorni, il nuovo articolo 117 della Costituzione è stato sostanzialmente il principale oggetto del contendere tra Stato e Regioni nelle numerose diatribe davanti alla Corte costituzionale. Nonostante le intenzioni del legislatore, infatti, il conflitto di competenze aveva raggiunto livelli senza precedenti, interessando praticamente tutte le materie, dal commercio alla sicurezza, dall’ambiente alla concorrenza. Dopo un lungo lavoro, come evidenziato da Domenico Gallo durante il dibattito organizzato dal Partito Liberale Italiano e tenutosi lo scorso 8 ottobre a Roma, la Corte costituzionale ha finalmente delineato i confini del ruolo dello Stato e di quello delle Regioni. Spesso dichiarando illegittime svariate norme regionali, l’organo supremo ha chiarito che una Regione non può sostituirsi allo Stato e deve rispettare, nell’ambito delle materie di propria potestà legislativa esclusiva, le norme di principio nazionali e comunitarie.

Giunti, dunque, a questo delicato equilibrio, è giusto porsi la domanda su come la riforma costituzionale in corso muterà l’edificio costituzionale ormai sostanzialmente assestato. L’art. 117 della Costituzione, infatti, nelle intenzioni di chi propone la riforma, subirà un profondo rinnovamento, a partire dalla soppressione della potestà legislativa concorrente che, curiosamente, è stata quella meno interessata dalla conflittualità tra Stato e Regioni. Viene esplicitato giustamente il riferimento ai vincoli dell’Unione europea, ma è cosa scontata, considerato che, come detto sopra, il loro rispetto è consolidato nel nostro ordinamento. E qualora vi fosse una norma, nazionale o regionale che sia, in violazione dei principi comunitari, l’Unione europea ha già tutti gli strumenti per “costringere” lo Stato membro a correggere le dissonanze giuridiche proprie o degli enti locali.

Il quadro si complica sulla ripartizione delle funzioni, parola che prenderebbe il posto di materie. E qui si apre un nuovo mondo, retto da un livello di confusione tale da far immaginare una nuova stagione di contenzioso, ben più dura di quella trascorsa, con la Corte costituzionale che sarà chiamata nuovamente a rimboccarsi le maniche e dirimere parecchie controversie. Qualche esempio potrebbe essere di aiuto. Secondo la riforma, lo Stato avrebbe potestà legislativa esclusiva riguardo alla tutela e alla valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, ambiente e ecosistema, ordinamento sportivo, disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo. Allo stesso tempo, la riforma prevede che le Regioni avrebbero potestà legislativa, per quanto di interesse regionale, riguardo alle attività culturali, alla promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici, alla valorizzazione e organizzazione regionale del turismo. Alzi la mano chi è in grado di leggere, in maniera chiara, la differenza nell’espletamento del potere legislativo di Stato e Regioni riguardo alle stesse funzioni, come ad esempio turismo, cultura e ambiente. E questo “interesse regionale” come si traduce per non mescolarlo con quello nazionale? Stesso discorso riguardo alla scuola. Da un lato lo Stato si occuperà di ordinamento scolastico; le Regioni di servizi scolastici, di promozione e del diritto allo studio. Che caos!

Di esempi se ne potrebbero fare altri, ma è opportuno soffermarsi su un altro punto della riforma dell’art. 117 che getta nello sconforto. Il comma 4 prevede che “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Quindi, il Governo diventa regista della situazione e, in sostanza, può arrogarsi il diritto di prendere il posto della Corte costituzionale perché, senza attendere una sua sentenza riguardo a un caso di conflitto di competenze, interviene sulle funzioni che spettano alle Regioni. Questo potere sarebbe ammesso quando lo richiedono non ben chiare esigenze di “tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Esempio grave di un ulteriore accentramento del potere nella figura dell’esecutivo con, anche qui, il Parlamento ridotto a semplice esecutore legislativo.

In conclusione, ci sono elementi sufficienti per essere preoccupati sui contenuti della riforma costituzionale. Benché sia giusto riformare la Costituzione che, come visto, nell’ambito del ruolo dello Stato e delle Regioni, non ha avuto un’applicazione pacifica e lineare, ci si deve necessariamente porre la domanda se questa riforma migliori, mantenga inalterata o peggiori la situazione. In realtà, la riforma è palesemente peggiorativa, al punto che vale, in tal caso, l’ipotesi che nulla si tocchi piuttosto che creare le condizioni per un nuovo, lungo periodo di conflitto di competenze. La Corte costituzionale, in questi anni, ha fatto tanto per rendere meno incerto il quadro giuridico in cui siamo. Con la riforma, verrebbe gettato al vento questo duro lavoro. Ancora una volta si comprende quanto avesse ragione l’illuminato Giovanni Malagodi, che lottò contro il ruolo delle Regioni, perché sede di sprechi, corruzione e affossamento della finanza pubblica. Con la riforma di Renzi, le Regioni diventerebbero l’affossamento anche dell’ordinamento giuridico italiano. Con queste premesse, non è difficile pensare che, votando “No” al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre, i cittadini avranno il merito di salvare l’Italia da un futuro nefasto.


di Massimiliano Giannocco