Pd e l’utero politico in affitto

Le dimissioni di Nicola Zingaretti dalla segreteria nazionale del Partito Democratico hanno aperto i ponti ad un intellettuale di spessore – in fin dei conti – come l’ex presidente del Consiglio, Enrico Letta. Data la situazione disastrosa di disorganicità programmatiche e di irradicalità riformiste nel Pd, le dimissioni di Zingaretti più che aprire un vuoto hanno iniziato a colmare un vuoto. Pare (in un pirandelliano “se vi pare”) che si agiti qualche speranza nell’elettorato classico del centrosinistra: l’intellighenzia politica dei tanti insegnanti anonimi, che in Italia votavano i dem, d’altronde, non merita di essere ancora una volta disillusa dai giuochi partitocratici privi di contenuti, utili al progresso civile della nazione italeuropea.

Cosa sarà il Partito Democratico? Non possiamo ancora saperlo. Sappiamo però cosa è divenuto. Per utilizzare una metafora che non suoni troppo materica, non lo definirò un mero ufficio di deposito. Utilizzerò metafore più antropomorfe, per il rispetto di quell’elettorato che ancora ci ha creduto, fino alla fine. Il Pd appare come un utero politico in affitto, in una surrogazione totalmente eterologa, ed eteronoma. Le entità genetiche delle indecisioni identitarie e programmatiche del Pd odierno sono rappresentabili dalle culture politologico-cratiche della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista italiano, rispettivamente madre e padre genetici dei post-ulivisti di maniera.

Della Democrazia Cristiana il Pd ha preso la vocazione iper-governista e la malleabilità dei propri punti di congiunzione con quasi tutto il resto dell’arco costituzionale d’etichetta. Dal Pci ha preso lo spirito dei limiti da porre nel dialogo con gli avversari ma anche al proprio interno, in una sorta di arrivismo rivoluzionario astratto che abortisce le proprie vocazioni al primo incontro con la realtà dei dolenti fatti, con i quali in realtà va a braccetto.

Se il Pd è l’utero portatore politico, in affitto, che utilizza virtù e vizi genetici di mamma Dc e di babbo Pci, a chi viene alienato il frutto che nasce da quell’utero? Al Movimento Cinque Stelle, che diviene l’attualissimo genitore sociale d’intenzione, il committente che vorrebbe come alleato un Pd in versione Dc in alcune sedute parlamentari e in altre un Partito Democratico in versione Pci, magari quando occorre mantenere l’elettorato a botta di assistenzialismi di turno e senza sbocchi, che in realtà detonano la ratio stessa dello Stato sociale di diritto. Il neo-grillismo poltronista ricompone capillarmente gli assetti del neo-assolutismo partitocratico. Esso impone implicitamente, ma legittimamente, i propri programmi ad un Pd che nel 2020 ha spalleggiato ufficialmente la vittoria del al referendum costituzionale sul taglio trasversale del Parlamento, accettando così una sostanziale diminuzione nella rappresentatività di tutti i territori e di tutte le minoranze del Paese. Il genitore unico sociale, committente e d’intento, è quel Movimento pentastellato che ha saputo affittare l’utero politico ufficiale del Pd, per riformare la prescrizione, in senso meno garantista e meno liberale.

In questo percorso di commistioni ereditarie (tradite), con una mamma Dc e un babbo Pci quali genitori genetici, in questa camaleontizzazione irradicale del Pd ufficiale, che ha voluto vestire i panni di madre biologica con un utero politico affittato alle agende astutamente ma legittimamente dettate dal Movimento, che cos’è la sinistra riformista italiana? Il Movimento, genitore social-populista a maggioranza relativa, con pochissimi punti fermi e tantissime inconsistenze identitarie, ha saputo cavalcare le debolezze delle sbiadite tradizioni politiche altrui. Mentre l’io adespota e il super-io piangente del Nazareno chiacchieravano tra di loro su chi avrebbe dovuto sentirsi il vero alter ego delle destre, che intanto costruivano i propri consensi popolari in mezzo ai drammi quotidiani di commercianti e operai, il Partito Democratico in sé perdeva la propria partita democratica interna ed esterna. La causa principale di questa perduta o mancata partita è stata, sinteticamente, l’incapacità di essere radicati in obiettivi politici tangibili e scanditi.

Il Pd, dall’alto della intellighenzia politologica di alcune delle sue basi inascoltate e dai bassi giuochi delle sue alte sfere partitocratiche nei palazzi, dovrebbe fare un percorso di chiarificazione programmatica. Se vuole essere per esserci e non soltanto per arrivare, deve ricominciare a camminare oltre i vuoti delle stanche retoriche, deve attraversare i disagi nelle strade, tra la gente che negli ultimi tempi non riesce a portare avanti le proprie attività commerciali, professionali, artistiche. Deve andare in terapia psichiatrica sul lettino dell’elettorato, il quale ha fame di socialità produttiva, senza democristianismi e senza comunismi di turno; deve ridurre la distanza tra ciò che è diventato e ciò che crede di essere, e quindi tra la macchina governista delle sistemazioni di potere e la macchina da scrivere popolare.

Se Marco Pannella con il suo Partito Radicale batteva politicamente i marciapiedi vertenziali con i tanti banchetti radicati nelle idee, chiare e tangibili (oltre che strane in alcuni casi), il Pd odierno si deve fare più pannelliano, e iniziare almeno a battere i tasti di una macchina da scrivere popolare. Su quella macchina da scrivere la lettera “L” dovrà restare sempre ben visibile, anche da lontano. Se la sinistra non vuole morire dovrà ripartire dalla “L” del Lavoro precario o del Lavoro che non c’è, per contribuire insieme alle destre a riformare l’economia libera delle micro, piccole e medie imprese. Più in generale la politica dovrà ripartire dalla “L” del Liberalismo, per promuovere i diritti degli individui in una visione di Stato che tenga ben distinti e separati i poteri pubblici e le funzioni, rendendoli efficienti nonché al servizio della cittadinanza, mai dei carrierismi autoreferenziali di maniera.

Forse le fluidificate strutture partitocratiche e movimentocratiche di questo tempo devono ascoltare di più le minoranze, liberali, neorepubblicane e libertarie, sopravvissute con grandi affanni ai meccanismi di mercificazione trasfusionale del politichese. Le dittature fragili delle retoriche politiche odierne, spogliate da vesti ideologiche ormai stanche e inadeguate, stanno scadendo in un qualunquisticamente corretto che corrompe la politicità corrodendola. Le dittature del qualunquisticamente corretto sminuiscono il ruolo della critica, per affermare cambiamenti soltanto di facciata e di facce, senza sostanza e senza firma.

Le dittature vaganti del qualunquisticamente corretto rimandano sempre ad un incerto domani la rifondazione della dialettica liberal-riformista. Dalla dialettica nascevano le riforme epocali, un tempo: dai milioni di like e dai tanti follower sui social ancora non si vede nemmeno l’ombra di una legge di sistema, che faccia scuola all’avvenire.

Aggiornato il 17 marzo 2021 alle ore 09:17