Liberali? Radicali? Intervista a Gianfranco Spadaccia

Da più di un anno ormai non c’è italiano che non stia sperimentando, nella propria vita, l’ineliminabile intreccio tra libertà individuali, civili ed economiche, da un lato, e socialità, dall’altro. Ritorneranno quindi in mente, a diversi italiani, coloro che delle libertà individuali hanno sempre fatto una ragione per cui vivere la politica, e politicizzare la propria vita, in militanza e nonviolenza: ritorneranno in mente i radicali.

Avranno imparato gli italiani tutti che non c’è realmente un buono Stato di diritto, senza un buono Stato evolutivo dei diritti, per ciascun cittadino, nessuno escluso? Più di qualcuno si starà chiedendo chi sono oggi i radicali, dove sono, come vivono questi primi anni post-pannelliani. Lo chiediamo ad uno storico militante radicale: Gianfranco Spadaccia. Classe 1935, giornalista e politico, attivo nella fondazione del Partito Radicale nel 1955, successivamente segretario. Uomo delle disobbedienze civili, che hanno contribuito a far affiorare, nel nostro diritto oggettivo, alcuni urgenti diritti soggettivi a tutela delle libertà individuali. E ancora, radicale nelle istituzioni durante le legislature degli anni 1979, 1983, 1987. In tempi molto più recenti è stato presidente di Più Europa. Iniziamo con le domande a Gianfranco.

Negli scorsi giorni, da più parti, militanti, appassionati e simpatizzanti della politica “liberal” si sono interrogati sui possibili risvolti del rapporto tra la storica radicale Emma Bonino e Più Europa. Io mi sto invece ponendo per lo più domande sul mondo radicale in sé, sui metodi radicali nelle elezioni e nell’organizzazione di campagne civiche. Nella mia visione socio-individualista e non organicista, infatti, i partiti sono degli strumenti, semplici o complessi a seconda dei casi. Mi piacerebbe avere una tua opinione sul prossimo futuro della politica radicale: lo vedi? O come lo vedresti?

“Dopo la morte di Marco Pannella il Partito Radicale si è frammentato e diviso in almeno tre tronconi, separati e di fatto distanti – e anche in polemica – l’uno dall’altro. Il primo, il Partito Radicale non-violento trans-nazionale e trans-partito (segretario Mauizio Turco, tesoriere Irene Testa) con l’ausilio di Nessuno Tocchi Caino di Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti e Sergio D’Elia. Il secondo troncone è rappresentato da Radicali Italiani (segretario Massimiliano Iervolino, tesoriera Giulia Crivellini) che a suo tempo con Riccardo Magi fu uno dei promotori di Più Europa (con lo stesso Magi, Silvja Manzi, Igor Boni, Barbara Bonvicini, Michele Usuelli, Emma Bonino, io stesso e molti altri). Infine, il terzo, l’Associazione Luca Coscioni, che ha abbandonato qualsiasi rapporto organico con altre organizzazioni radicali ed è divenuta un’associazione trasversale, che dialoga molto con il mondo Cinque Stelle (segretaria della Coscioni, Filomena Gallo; tesoriere Marco Cappato con Marco Perduca, Rocco Berardo e molti altri). Ciascuno di questi gruppi fa cose egregie, è protagonista di importanti battaglie. Mi piace ricordare l’impegno di Rita Bernardini, condotto con metodi nonviolenti, per il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione, per i diritti dei detenuti e per una giustizia coerente con lo Stato di diritto. Allo stesso modo è stato encomiabile l’impegno di Radicali Italiani per i diritti dei migranti e infine, ovviamente, importantissimo l’impegno della Associazione Coscioni non solo per la libertà di ricerca ma anche per i diritti riguardanti il fine vita (cure palliative, suicidio assistito, eutanasia). Impegni e obiettivi, perseguiti anche attivando gli strumenti giudiziari, quando è possibile, oltre agli strumenti politici e legislativi. C’è tuttavia una importante differenza rispetto alle battaglie condotte dal Partito Radicale di Pannella: allora ogni singola battaglia per i diritti si inquadrava in una strategia che mirava a fare di quella battaglia un momento decisivo della lotta, per una più ampia riforma della società e dello Stato. Cito il divorzio, come scontro trainante, non solo della più ampia successiva rivoluzione dei diritti civili, ma anche di quella che per noi avrebbe dovuto essere l'alternativa laica alla Democrazia Cristiana (con l’incontro di sinistra laica e sinistra comunista), e che comunque divenne la base della nostra resistenza alla politica del compromesso storico, e del nostro incontro con i partiti laici e il Partito Socialista italiano. Oggi questa visione più larga, complessiva, è completamente scomparsa. Ciò non è dovuto soltanto alle divisioni che caratterizzano i radicali post-pannelliani, io credo che sia dovuto proprio ad una mutazione culturale, che allontana i radicali attuali da più impegnative (e visionarie) ambizioni riformatrici. In questo appannamento culturale, in alcuni casi si rischia di perdere il forte radicamento che il nostro libertarismo ha sempre avuto nei principi liberaldemocratici e dello Stato di diritto. Da qualcuno ho sentito parlare di deriva liberaldemocratica, e mi è sembrato demenziale. Mi sono però chiesto se alcuni – anche importanti – radicali non siano vittime, oggi, di una deriva anarcoide, di cui i radicali della mia generazione non hanno mai corso il rischio. Naturalmente questi limiti e questi pericoli non sono propri dei soli radicali. Essi ormai riguardano anche Più Europa, affetta anch’essa dai vizi del frazionismo, del gruppettarismo e dal settarismo”.

Liberali-Liberisti-Libertari: il trittico dei valori radicali. Un trittico che potrebbe racchiudere in sé un eventuale programma di riforme, per un più pragmatico nonché pieno esercizio delle libertà personali, all’interno delle società post-contemporanee che dovrebbero garantire solide risposte, ai vecchi e nuovi bisogni degli individui, tra diritti e doveri in movimento. Cosa significava essere liberali-liberisti-libertari negli anni Settanta-Ottanta-Novanta, che hai vissuto politicamente sulla tua pelle da radicale, spero sia chiaro a molti. Dato che le idee assumono sfumature e forme differenti, nelle relatività evolutive o disevolutive d’ogni tempo, che cosa vuol dire essere liberali-liberisti-libertari oggi? Vado a colpo sicuro, lo chiedo a un radicale storico.

“Il mio Partito Radicale non è stato soltanto il partito dei diritti e delle libertà individuali, perché diritti e libertà esistono soltanto e sono solidi quando sono previsti e garantiti da istituzioni realmente democratiche. Per questo nella nostra lotta politica, la lotta per la conquista dei diritti è sempre andata di pari passo con la lotta per la riforma dello Stato, e delle sue istituzioni. In proposito c’è una bella frase di Bandinelli, che ho scelto come apertura del libro che ho scritto sulla storia del Partito Radicale. La riassumo così: siamo stati non il partito dei diritti, ma il partito del diritto e della democraticità delle istituzioni. Personalmente come Ernesto Rossi, mi considero un liberal-socialista. Rossi, che era liberista, scrisse anche “Abolire la miseria” ispirandosi alle idee di Lord William Beveridge, che fu negli anni Trenta il vero fondatore e teorico del Welfare State. Non sono insomma uno di coloro che thatcherianamente confondono il liberismo con la deregulation (sostenuta non solo dalla Lady ma anche da Reagan e da Clinton), per me il liberismo presuppone un mercato fortemente regolato, in cui le regole e le istituzioni – non solo nazionali – siano in grado di impedire e rimuovere le ostruzioni ad una effettiva liberalizzazione. Le offese alla libertà vengono non solo dallo Stato monopolista, ma anche da cartelli, monopoli privati e posizioni dominanti. Essere liberal-socialista significa lottare contro una concezione del socialismo coincidente con lo statalismo, e contro questa visione errata del liberalismo inteso come mera deregulation. E sono per i radicali di oggi (sarebbero) due obiettivi da perseguire con forza”.

Ringraziamo Gianfranco Spadaccia per averci dato il suo punto di vista sulla questione radicale dell’oggi. Se le eredità radicali sono chiare nell’esperienza esistenziale di Pannella, che Gianfranco ha ben conosciuto e vissuto, ciò che è avvenuto dopo la morte del Marco libertario appare un po’ una diaspora, un po’ una deriva degli atomi continentali (quando una nuova pangea?), un po’ una Striscia di Gaza delle radicalità. Ma è tutto naturale, si chiama vita.

Rossi, Beveridge, Reagan, Clinton, Thatcher. Vari nomi sono stati menzionati, tutti molto noti e importanti. Tra questi nomi, anche a costo di lambire il politicamente scorretto del biennio 2020-2021, è bene ricordare quello della Thatcher, scomparsa l’8 aprile 2013. È bene ricordare Margaret Thatcher non solo per galanteria, e nemmeno per una coincidenza di date o anniversari. Al di là dei suoi errori sul piano umanitario-internazionale, della Thatcher è bene rispolverare il senso di due sue profonde, pragmatiche convinzioni: “Nessuna nazione è mai cresciuta tassando i propri cittadini oltre le proprie capacità di pagare”. E poi: “Non ci può essere libertà se non c’è libertà economica”.

La prima convinzione rappresenta un valore realisticamente sottile ma di tutta evidenza, un valore che dovrebbe essere aggiunto accanto ai sacrosanti princìpi del “no taxation without representation” e della progressività nell’imposizione fiscale. La seconda convinzione, ossia l’idea che mette in relazione necessaria la libertà in sé con la libertà economica, diventa ogni giorno di più un’urgente verità sociale fatta di carne, così carnosa da poter essere toccata con le mani ferme, anzitutto da quei lavoratori e disoccupati che attendono di lavorare. Basterebbe guardar fuori dalle finestre delle proprie sicurezze e dagli oblò dei propri privilegi, prima o dopo i coprifuoco delle 22, tutti i giorni, per capire.

Stando così le cose in questo tipo di società produttivista occidentale, ed ancor più in questo periodo di chiusure degli spazi di civiltà economica, culturale, artistica, sociale, per via delle misure restrittive scelte ed adottate dalle classi governative, possiamo davvero dirlo con forza, con tutta la forza del realismo politico: non ci può essere libertà senza libertà economica. Ed ecco che ancora una volta i diritti individuali si fanno radicalmente sociali, non per astratta virtù, ma per necessità.

Aggiornato il 12 aprile 2021 alle ore 11:39