La civiltà di un Paese è data dalle condizioni delle sue carceri

“La civiltà di un Paese è data dalle condizioni delle sue carceri” (Voltaire)

Il nucleo primario di ogni sistema penale va colto in comportamenti avvertiti come forti disvalori dalla coscienza degli uomini di ogni tempo, di ogni luogo, di ogni convinzione religiosa o laica (quali, ad esempio, il ledere l’incolumità, la libertà o la proprietà dell’individuo): si tratta dunque di violazioni arrecate a dei diritti naturali.

Un nucleo più ampio è costituito, con carattere mutevole, dalle norme atte a reprimere comportamenti lesivi dell’ordine sociale ed economico conseguito da una collettività in un momento storico ben determinato (per esempio, nel recente passato, in Italia era vietata l’esportazione di capitali all’estero). Ciò appare coerente con l’evoluzione delle finalità di base di un sistema che, nel XX secolo erano essenzialmente conservative, vale a dire di tutela dell’ordine morale, economico e sociale esistente; nei tempi presenti, invece, in linea con la tendenza evolutiva dell’intero assetto normativo, esse sono propulsive, poiché anche il diritto penale coopera all’ascesa sociale e civile della collettività.

Dalla sintesi delle varie correnti di pensiero nacque la formula dell’articolo 27 della Costituzione, terzo comma: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, il quale ultimo valore è posposto a quello punitivo. La concezione retributiva della pena è integrata dalla prevenzione speciale che viene attuata attraverso due metodi: il sistema del “doppio binario” (presente nel codice Rocco, risalente al 1930), che dispone al fianco delle pene tradizionali fissate in relazione alla gravità del reato, delle misure di sicurezza indeterminate nel tempo, per i delinquenti ritenuti socialmente pericolosi, destinate a durare finché non muta la prognosi circa la pericolosità del soggetto.

Così come la personalizzazione della pena, nel caso dei delinquenti che destano maggior allarme sociale, può avvenire tramite le richiamate misure, per converso – nel caso di soggetti che appaiano maggiormente recettivi in una prospettiva di recupero sociale – è stato inserito il principio di flessibilità delle modalità attuative della pena, che pur essendo doverosamente predeterminata, può nei casi particolari essere oggetto di una sorta di adattamento sartoriale alla personalità del singolo reo, attraverso un apposito percorso riadattativo - trattamentale.

Nascono da tale esigenza le sanzioni sostitutive, che consentono di applicare misure limitative della libertà personale (libertà controllata, semidetenzione, affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà), meno costrittive della reclusione e che, non comportando un totale sradicamento, rendono più facile il riadattamento sociale del reo. Dalla stessa logica nascono gli istituti giuridici della liberazione anticipata e dei permessi premio, riconosciuti dall’ordinamento penitenziario. È a far data dagli anni ’70 che il principio rieducativo assurgerà a valore fondante di varie riforme legislative ordinarie; mentre nella stessa Corte costituzionale si veniva affermando il riconoscimento del richiamato principio, vuoi in materia di misure di sicurezza (sentenza 167/1972), vuoi in materia di libertà condizionale (sentenza 204/1974), al qual ultimo riguardo essa statuì che “in virtù del disposto costituzionale sullo scopo della pena, sorge per il condannato il diritto al riesame della pena in corso di esecuzione, al fine di accertare se la quantità di pena espiata, abbia o meno realizzato positivamente il proprio fine rieducativo”.

Dopo la nota riforma dell’ordinamento penitenziario, avviata con la Legge 354/1975, il carcere venne considerato, alla luce dell’articolo 2 della Costituzione – con un’interpretazione a nostro avviso alquanto ardita, ma significativa dell’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza verso la preminenza delle finalità rieducative – come una “formazione sociale” dove il recluso deve poter estrinsecare la sua personalità, compatibilmente con il suo peculiare status.

Negli anni ’80 il giudice costituzionale attribuì al principio rieducativo il “criterio finalistico principale” anche per gli ergastolani, per cui con sentenza 274/1983 statuì che “la possibilità di ottenere una riduzione della pena (…) incentiva e stimola nel soggetto la sua attiva collaborazione all’opera di rieducazione. Finalità, questa, che il vigente ordinamento penitenziario persegue per tutti i condannati a pena detentiva, compresi gli ergastolani.

Il che, a nostro avviso, potrebbe considerarsi già esaustivo della richiesta –periodicamente ricorrente – di abolire l’ergastolo a livello legislativo: ciò potrebbe rivelarsi controproducente proprio rispetto alla finalità rieducativa, poiché l’anticipazione del fine pena in tempi più o meno ravvicinati, deve essere frutto non di un’indiscriminata – e quindi iniqua – benevolenza verso gli autori dei misfatti più gravi, ma di un premio meritato con la collaborazione operosa dei diretti interessati, a segno di quel ravvedimento in cui si sostanzia la finalità recuperativa oggetto di previsione costituzionale.

Le norme cardine previste nella Costituzione italiana in specie sono gli articoli 25 e il richiamato 27. Il primo trova il suo precedente specifico nell’Illuminismo ed in particolare nel pensiero di Ludwig Feuerbach, redattore ultimo della formula sintetica nullum crimen, nulla poena sine lege. È l’articolo 25 della Costituzione, secondo e terzo comma, dunque, a sancire la riserva assoluta di legge in tema di norme incriminatrici e delle relative sanzioni “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza, se non nei casi previsti dalla legge”.

Il Trattato istitutivo della Costituzione europea (2004), ha recepito l’articolo 49 della Carta europea dei Diritti, che testualmente recita: “Nessuno può essere condannato per un’azione o un'omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima. Il presente articolo non osta al giudizio e alla condanna di una persona colpevole di un’azione o di un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali riconosciuti da tutte le nazioni. Le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato.

Oggi le norme comunitarie direttamente applicabili prevalgono su quelle interne eventualmente con esse dissonanti, se operano in bonam partem a vantaggio del reo, mentre non possono operare contro di lui, in ossequio al più generale principio garantistico e di civiltà giuridica, noto come favor rei.

Altro principio di civiltà giuridica è quello di cui all’articolo 27 della Costituzione, che testualmente dispone: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”. La richiamata previsione costituzionale della presunzione di innocenza sino ad una condanna definitiva è sempre più frequentemente disattesa, da quando la “comunicazione giudiziaria”, nata come strumento di garanzia per l’indagato, è divenuta un mezzo di gogna mediatica a suo danno. Oggi detta gogna è anticipata ed amplificata dall’abominio perpetrato a mezzo stampa e tramite strumenti di comunicazione vari, con la diffusione della notizia dello stato di “inquisito”, in cui chiunque nel corso della vita può incorrere, anche per un solo giorno, a propria insaputa.

In spreto alla Costituzione, ma prima ancora alla logica, al buon senso, alla buona fede ed alla ragionevolezza, coloro che ricoprono cariche pubbliche o che comunque hanno notorietà nello sport, nello spettacolo, nella politica… possono divenire quindi prede incolpevoli della pubblica esecrazione, con la non desiderabile notorietà di titoli da prima pagina; mentre alla loro successiva accertata innocenza, non viene accordata alcuna pubblicità, salvo – nella migliore delle ipotesi –quella di un trafiletto di ultima pagina. Purtroppo il sacrosanto principio della definitività della condanna a garanzia di qualsivoglia imputato, fu stravolto con una serie di sofismi dalla Legge Severino detta “anticorruzione”, con il successivo avallo della Corte costituzionale in tema di incandidabilità dei Pubblici amministratori sottoposti a determinati processi, pur in assenza di condanna irrevocabile.

La Corte aveva argomentato che la permanenza in carica di chi fosse stato condannato anche in via non definitiva per determinati reati che offendevano la Pubblica amministrazione(poteva) comunque incidere sugli interessi costituzionali protetti dall’art. 97, secondo comma, della Costituzione, che affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in modo che siano garantiti il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, e dall’articolo 54, secondo comma, della Costituzione, che impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche “il dovere di adempierle con disciplina ed onore””.

Sicché il bilanciamento dei valori coinvolti effettuato dal Legislatore “non si appalesa (va) irragionevole, essendo esso fondato essenzialmente sul sospetto di inquinamento o, quanto meno, di perdita dell’immagine degli apparati pubblici, che può derivare dalla permanenza in carica del consigliere eletto, che abbia riportato una condanna, anche se non definitiva, per i delitti indicati e sulla constatazione del venir meno di un requisito soggettivo essenziale per la permanenza dell’eletto nell’organo elettivo.

Non possiamo esimerci dal notare conclusivamente, che ove anche si accettasse la natura di provvedimento cautelare per quello della sospensione dalla carica di amministratore locale, permangono due macroscopici rilievi critici:

1) l’evocata indegnità morale evocata dalla Consulta, così come dal Consiglio di Stato, dovrebbe vieppiù essere ostativa per i membri del Parlamento nazionale, come di quello europeo, essendo essi latori di istanze collettive di livello ben più alto rispetto a quelle di cui sono espressivi gli amministratori degli enti territoriali;

2) la misura cautelare, nel caso di specie, sarebbe comunque anomala, in quanto non prevista tra quelle contemplate nell’elenco contenuto nella parte prima, libro quarto, del Codice di procedura penale, con doveroso carattere di tassatività e di esaustività.

Nel caso –viceversa – di condanna in via definitiva, un segno di progresso della nostra civiltà giuridica si era profilato con la riforma dell’ordinamento penitenziario, mediante il Decreto legislativo attuativo della Legge delega sulla riforma della giustizia penale (legge 23 giugno 2017, numero 103), mirante – per un verso – a diminuire il sovraffollamento nelle carceri, e – per altro verso – a rendere prioritarie delle misure alternative alla reclusione, potenziando il reinserimento sociale del detenuto “per arginare il fenomeno della recidiva.

A fronte di tutto ciò, tuttavia la situazione si è aggravata non solo statisticamente (risultano recluse 53.637 persone – il 31 per cento in attesa di giudizio – contro una capienza regolamentare di 50.779 posti), ma anche per la violenza di alcune mele marce della polizia penitenziaria, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Lì il 6 aprile 2020 venne effettuato un pestaggio indiscriminato e violento da taluni appartenenti a tale Corpo ai danni dei reclusi, definito dal Gip Sergio Enea “ignobile mattanza”. Si trattò di gratuita violenza a freddo, che aveva colpito i detenuti, ma aveva anche ferito l’immagine dell’intera Polizia penitenziaria, con conseguenti provvedimenti di sospensione nei confronti anche del reggente pro tempore di Santa Maria Capua Vetere e del vicedirettore.

La Guardasigilli Marta Cartabia – in piena sintonia con il premier Mario Draghi – parlandone alla Camera, ha espresso la più ferma condanna per l’accaduto, evidenziando la cronicità dei problemi degli istituti penitenziari, affinché non si ripetano atti di violenza né contro i detenuti, né contro gli agenti della penitenziaria.

Il carcere – ha detto – è lo specchio della nostra società. Ed è un pezzo di Repubblica, che non possiamo rimuovere dallo sguardo e dalle coscienze”. La ministra ha affermato la necessità di far luce su quanto accaduto nelle carceri italiane nell’ultimo anno, a cominciare dalle rivolte dei detenuti e dalle conseguenti azioni poste in essere dagli operatori penitenziari, per cui è stata costituita una commissione ispettiva interna.

Chi è in un carcere – ha soggiunto- è nelle mani dello Stato. E dai rappresentanti di quello Stato deve sapere di poter essere trattato nel rispetto di tutte le garanzie.

Se le responsabilità penali sono sempre e solo individuali e non possono ricadere sull’intero corpo dell’Amministrazione penitenziaria – ha affermato l’oratrice – le responsabilità “politiche” dell’accaduto risiedono anche nella disattenzione con cui per anni si è lasciato che peggiorassero le condizioni di chi si trovava in carcere e di chi in carcere ogni giorno lavorava. Nel carcere in questione manca l’acqua corrente ed il sovraffollamento complica ancor di più la quotidianità, per cui l’intervento di ampliamento era da tempo previsto in un’area verde non attrezzata, e fino ad oggi non utilizzata, non solo per nuovi posti letto, ma anche per gli spazi tratta mentali.

Tra le innovazioni programmate vi è anche una capillare videosorveglianza, a garanzia di tutti, all’interno dei 190 istituti penitenziari italiani contestualmente al reclutamento di nuovo personale nella Polizia penitenziaria, in atto molto sottodimensionato anche rispetto al normale turn over. La Polizia penitenziaria oltre all’esercizio della tradizionale funzione della vigilanza e della custodia, ha anche il compito – evidenziato dalla Cartabia – di accompagnare il detenuto nel percorso rieducativo, come previsto dalla Costituzione, per cui deve essere formata continuativamente, onde scongiurare nuovi episodi di violenza.

La violenza di cui si discorre, è avvenuta – vogliamo ricordarlo – nel Paese definito “culla del diritto”, per aver dato origine al diritto romano. E non solo: esso ha dato i natali a Cesare Beccaria, che nel 1764 intraprese una battaglia di civiltà di risonanza internazionale contro la pena di morte, con il conseguente impegno degli Stati italiani preunitari non solo a bandirla dal proprio territorio, ma affinché l’abolizione della condanna capitale diventasse patrimonio di tutta l’umanità.

Non era certo il capestro a rattenere i potenziali rei dal delinquere, bensì la certezza e la celerità della sanzione, che – affermava acutamente il Beccaria – deve essere mite, ma ineluttabile nella compiutezza della sua esecuzione. Voltaire e Beccaria ci osservano, e con loro la comunità dei Paesi civili che guardano all’Italia ancora come culla del diritto: non deludiamoli!

 

Aggiornato il 23 luglio 2021 alle ore 10:04