Solstizio al Quirinale: il giorno elettorale più lungo

Il prescelto al Quirinale verrà prima o dopo L’Ora (votazione) Quarta evangelica? Alle Camere riunite si va preparando il giorno più lungo, per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, con i seggi convocati il 24 gennaio prossimo. Per rispondere alla domanda “Sarà o no una fair election?”, o si assisterà invece a una lotta tutti contro tutti, fino all’esaurimento nervoso e allo spirare del tempo limite (che però è di fatto ad libitum, con possibilità di chiamate a ripetizione al seggio unico), vale la pena di sfogliare la Repubblica del 10 gennaio. Risponde in modo brillante al quesito di cui sopra il costituzionalista Michel Ainis, bacchettando politica e Parlamento italiani per la pochezza dimostrata in merito. A riprova, l’autore evidenzia ben quattro imperdonabili lacune di diretta responsabilità della politica, così come riassunte di seguito. Primo (I): gli effetti indotti e conseguenti al taglio dei parlamentari destinato a entrare in vigore dalla prossima Legislatura. Secondo (II): i cambi di casacca, con ben 276 parlamentari che hanno cambiato gruppo, di cui 126 solo nel 2021. Terzo (III): il quadro del voto del 2018 che non rispecchia minimamente la situazione attuale. Un tempo, si poteva tranquillamente soprassedere al passaggio di Legislatura, votando per il presidente anche alla fine di quella in scadenza, dato che la differenza in percentuale del consenso dei partiti tra le due Assemblee, l’attuale e la successiva, oscillava attorno a percentuali dell’ordine di alcuni decimi di punto.

Oggi, invece, a partire dai risultati delle recenti elezioni europee e amministrative, il M5s è in caduta libera, mentre una formazione giovane come Fratelli d’Italia e la stessa Lega risultano in forte ascesa, proprio grazie ai risultati ufficiali di pregresse tornate elettorali post-2018, confermate costantemente dai sondaggi degli ultimi due anni. Quarto (IV): lo stato d’emergenza è diventato routinario e, quindi, un ossimoro nei termini, per cui legifera il Governo e non il Legislatore naturale. Per il combinato disposto I-IV) questo Parlamento è deontologicamente delegittimato (anche se formalmente ne conserva il diritto e il potere) a eleggere il nuovo inquilino del Quirinale che, se si fosse sciolta anticipatamente l’attuale Legislatura, per poi avere i numeri e i pesi giusti per la misura del consenso popolare, avrebbe preso ben altra strada come esito finale del voto dei Grandi Elettori. Questi ultimi, infatti, falcidiati di ben un terzo del numero attuale di parlamentari, si sarebbero ritrovati profondamente cambiati sia nella distribuzione numerica dei seggi ai Partiti rappresentati in Parlamento, sia nel tipo di mandato ricevuto dagli elettori, in pendenza di una pandemia che richiederà probabilmente molto tempo prima di essere normalizzata o, quantomeno, di endemizzarsi. Quindi, conclude Ainis, tutto congiurerebbe per un Mattarella-bis.

L’altra grande questione riguarda l’interrogativo “Che cosa farà e che vuole veramente Draghi? Restare dov’è, o salire al Colle più alto?”. E, soprattutto, che cosa vogliono da lui i Poteri forti, come le istituzioni di Bruxelles, i nostri alleati atlantici e gli investitori internazionali che vantano da noi crediti per migliaia di miliardi di euro del nostro mostruoso debito pubblico? Sul punto, prova a rispondere molto indirettamente il duo collaudato (quasi un matrimonio di penna) Boeri-Perotti, sempre su la Repubblica del 9 gennaio, incamminandosi sui carboni ardenti degli adempimenti internazionali dell’Italia relativi al Pnrr. Qui, obiettivamente, appare in tutta evidenza il sostanziale gioco delle tre carte svelato dai due illustri economisti, che sono andati a guardare molto da vicino il resoconto governativo, a proposito delle famose 51 missioni raggiunte formalmente dall’Italia entro il 2021 per ottenere, come è già avvenuto, l’anticipo di 24 miliardi sul totale di 222 a noi riservato dal Next generation Eu. E qui arrivano le note dolenti, riassumibili in “tutto chiacchiere e distintivo”, come disse Al Capone a coloro che lo stavano arrestando. Per capire, è sufficiente leggere i (drammatici) passaggi virgolettati delle citazioni testuali dei documenti relativi, inviati dal Governo al Parlamento. Ovviamente, il Buco nero riguarda proprio l’assetto costituzionale Stato-Comuni-Regioni, essendo molta parte della progettazione ed esecuzione dei progetti delegata a Enti locali per lo più impossibilitati a provvedere, per mancanza di professionalità e di risorse adeguate per la scelta dei consulenti e progettisti esterni, compreso il know-how, di cui i loro organici e la relativa organizzazione amministrativa sono del tutto sprovvisti.

Quindi, in buona sostanza, poiché l’Ue guarda a Draghi come garante ultimo dell’andamento a buon fine dei suoi prestiti e donazioni, a favore di una crescita duratura del sistema-Paese italiano, in crisi da almeno un ventennio, è chiaro che il quanto mai prevedibile disastro del Pnrr (che farebbe esplodere ulteriormente il debito, senza dare speranza alcuna di riscatto alle future generazioni) rappresenta un movente solido e inoppugnabile per il trasferimento rapido di Draghi al Quirinale per un settennato. Da un lato, infatti, divenendo inevitabile a seguito della sua elezione lo scioglimento a settembre dell’attuale Parlamento (in modo da garantire il trattamento pensionistico a tutti coloro, e saranno davvero in molti, che non verranno verosimilmente né rieletti, né ricandidati), il nuovo presidente potrebbe giocare la famosa fisarmonica dei suoi pregnanti poteri costituzionali, dilatandola al massimo, per scegliere i ministri e il presidente del Consiglio del nuovo Esecutivo, in modo di arrivare al 2026 con le riforme istituzionali fatte e la maggior parte delle missioni concretamente realizzate.

Dall’altro, Draghi potrebbe fortemente condizionare la qualità della produzione legislativa del futuro Parlamento, rinviando la promulgazione a sua firma di leggi carenti, farraginose se non addirittura dannose per la corretta realizzazione del Pnrr. E qui, decisamente, la politica deve fare in fretta riforme istituzionali non più rinviabili, eliminando almeno una parte dei poteri di spesa clientelare di Regioni ed Enti locali. La prima misura auspicabile, in assoluto, è quella di istituire a sistema (ripristinando ad es. le circoscrizioni amministrative provinciali) organismi tecnici interdisciplinari che si sostituiscano/surroghino/integrino quelli degli Enti stessi, per quanto riguarda progettazione, appalti ed esecuzione dei progetti locali e infrastrutturali dello stesso Pnrr, da affidare per la realizzazione ad aziende qualificate del settore. L’altra misura, a invarianza costituzionale, riguarda le nomine nella sanità regionale e nelle Asl, in particolare. Se l’Italia vuole davvero salvarsi, deve ripristinare i concorsi unici a livello nazionale di primari, direttori generali, sanitari e amministrativi, istituendo altrettanti ruoli di merito, dai quali fare obbligo alle Regioni di assumere, per ordine di graduatoria, i profili dirigenziali relativi per soddisfare le esigenze della sanità locale e regionale.

E, sopra tutti costoro, devono essere fissate regole assolute per il rispetto di standard comuni delle prestazioni, in base al metodo del benchmarking (copiare da chi fa meglio). Chi sbaglia o non rispetta gli standard stabiliti con legge pluriennale dello Stato, va a casa e gli enti regionali di spesa subiscono penalizzazioni nei trasferimenti loro spettanti, in proporzione alle inadempienze riscontrate. Non sarà ora di finirla con il clientelismo a tutto danno del contribuente (italiano ed europeo)?

Aggiornato il 12 gennaio 2022 alle ore 12:06