Ci mancava il Monopoly “politically correct”

giovedì 13 gennaio 2022


Non sanno più davvero cosa inventarsi le sinistre occidentali per fare il lavaggio del cervello ai bambini e plasmare, attraverso le scuole pubbliche – nel frattempo divenute dei veicoli per la propaganda “neo-marxista” – un gregge di pecore belanti, senza spirito critico e libertà intellettuale, che saranno gli adulti di domani, se si continuerà in questo modo. Se pensavate di aver visto tutto quando Pippi Calzelunghe venne accusata di razzismo (perché nei libri e nei memorabili sceneggiati televisivi, ambientati nella Svezia degli anni Sessanta, non ci sono bambini di colore) e “Grease”, il celebre musical con John Travolta e Olivia Newton-John, di omofobia (perché nel film, ambientato nell’America degli anni Cinquanta, al ballo scolastico non sono presenti coppie omosessuali), vi sbagliavate: ora il più famoso gioco da tavola del mondo, il Monopoly, che tutti conosciamo e al quale abbiamo giocato almeno una volta nella vita, in Francia viene usato per insegnare ai bambini il valore dell’inclusività e l’ingiustizia delle discriminazioni e delle disuguaglianze sociali.

Il gioco è stato ribattezzato, per l’appunto, “Monopoly des inégalités”: Monopoly delle disuguaglianze, e si basa sul solito vittimismo etnico-sociale, per cui esisterebbero categorie più svantaggiate di altre, alle quali non viene data alcuna possibilità di emergere e di affermarsi. Il gioco, in altri termini, dovrebbe far capire ai bambini quello che avviene nella realtà nella quale vivono e si relazionano, affinché possano capirne i meccanismi sin dalla più tenera età e combattere, da adulti, contro simili iniquità.

Le regole di questa specie di Monopoly degli orrori (più che delle disuguaglianze) sono piuttosto semplici. Ecco come le spiega Constance Monnier, referente dell’Observatoire des inégalités (Ente creato nel 2003 con lo scopo di lottare contro le discriminazioni e sensibilizzare l’opinione pubblica sui diritti e l’inclusione delle minoranze) che ha messo a punto il gioco: prima della partita vengono distribuite le carte, dalla categoria A, la più ricca e privilegiata, a quella C, la più povera ed emarginata e ciascun giocatore ha il suo personaggio; quelli di categoria A sono tutti bianchi, francesi autoctoni, perlopiù di mezza età, con uno stipendio di trecento euro e un patrimonio iniziale di duemila, che iniziano la partita con due case e possono giocare con due dadi, e durante tutto il gioco, ogni volta che ricominciano il giro, aumentano la loro fortuna; al contrario, i personaggi di categoria C sono tutti immigrati o “nuovi francesi”, il cui stipendio è di cento euro e il cui patrimonio iniziale è di seicento, iniziano la partita senza alcuna proprietà e possono giocare con un dado solo, in maniera tale da non poter vincere in nessun modo.

Lo scopo, infatti, sarebbe proprio quello di mostrare ai bambini – in una maniera a loro comprensibile – come le differenze sociali e razziali siano rilevanti ai fini della riuscita delle persone e che solo la più completa e perfetta uguaglianza (elevando gli uni o abbassando gli altri) è il principio di una società autenticamente giusta e basata su meccanismi equi. Il messaggio del gioco è che le società occidentali non permettono agli immigrati, neanche dopo generazioni, di affermarsi e di integrarsi pienamente. Finché le cose rimangono così – dice la referente dell’Ente creatore del gioco – non importa quanto si sia bravi o determinati: se non si nasce col giusto colore della pelle e nella giusta famiglia, si hanno poche o nulle speranze di ascesa sociale.

Non spenderò molte parole nel deprecare – come da mia abitudine – l’ideologia egualitaria e nel tessere, per contro, le lodi della tanto vituperata diseguaglianza. La pretesa di uguaglianza è un insulto alla realtà, una rivolta contro la natura delle cose: per il solo fatto di essere individui siamo unici e irripetibili, con le nostre qualità, le nostre disposizioni e le nostre esperienze. Di conseguenza, immaginare una società egualitaria è pura utopia: e non ci sarebbe nulla di male nell’illudersi o nel sognare, se in nome di queste illusioni e di questi sogni non si fossero calpestati, nel corso della storia, e non si continuassero a calpestare i diritti e le libertà fondamentali delle persone; se in nome di queste illusioni e di questi sogni non si fosse versato del sangue e se non si fossero perpetrati le violenze e gli orrori che ben conosciamo.

Diciamo che l’egualitarismo, prima ancora di essere l’ideologia del livellamento delle differenze socio-economiche tra gli individui, è il tentativo di penalizzare la parte migliore di una società, impedendo a essa di emergere valorizzando la particolarità e le qualità superiori degli elementi che, per le loro caratteristiche e capacità, sono atti a primeggiare e a eccellere. Per quanto possa sembrare paradossale, la diseguaglianza è il veicolo del progresso e dell’avanzamento sociale ed economico, perché laddove ai migliori venisse impedito o reso difficile raggiungere posizioni e traguardi più elevati di altri, si precluderebbe loro la possibilità di fare nuove scoperte, di inaugurare nuovi modi di fare le cose, di giungere a conclusioni cui la massa non sarebbe mai arrivata, e al resto della popolazione la possibilità di beneficiare di tali progressi e di migliorare la loro esistenza. Chi vuole una società egualitaria, in realtà, vuole una società avvolta dal conformismo, statica, povera e sottosviluppata.

Questo gioco, tuttavia, lungi dal cercare di inculcare lo spirito egualitario nei bambini – cosa che sarebbe già di per sé discutibile – è un subdolo tentativo di avvelenare le menti dei piccoli col razzismo, sia pure in una forma diversa da quella usuale (ma che si va sempre più diffondendo, con l’appoggio entusiasta e l’approvazione degli alfieri del politicamente corretto): quello contro i bianchi e contro la civiltà occidentale. Mi chiedo quale vespaio di polemiche e quali provvedimenti draconiani sarebbero stati adottati contro un ente o un’azienda che avesse lanciato sul mercato un gioco per bambini in cui si rappresentavano gli immigrati in maniera stereotipata o come i simboli del male che affligge la società. Non oso pensarlo. Eppure, se qualcosa di simile viene fatto coi bianchi – in nome dell’idiozia nota come lotta al “white privilege” – allora va tutto bene e la cosa viene persino giudicata “istruttiva”.

L’obiettivo – suppongo – sia quello di insegnare ai piccoli, nei quali risiede la speranza del futuro per la nostra civiltà, a odiare e a disprezzare se stessi e il retaggio storico-culturale dal quale provengono, a vergognarsene, a sentirsi colpevoli di quello che sono, in maniera tale che sia più facile e spontaneo per loro rinunciare alla loro identità e, di conseguenza alla loro libertà. Perché, come non mi stancherò mai di ripetere e di scrivere (e lo farò ogni volta che ne avrò l’occasione), la nostra libertà e i nostri diritti hanno radici nella nostra cultura e nella nostra storia. Perdute queste ultime non può che perdersi anche la prima. E probabilmente è proprio questa la grande aspirazione del socialismo culturale tanto di moda al giorno d’oggi: creare una società di individui incapaci di pensare e di ricordare e che, per questo, non possono far altro che pensare secondo gli schemi imposti dall’alto.


di Gabriele Minotti