L’interpretazione dei poteri presidenziali dalle origini ad oggi

lunedì 24 gennaio 2022


I poteri presidenziali, scolpiti nella Costituzione come raccordi moralmente autorevoli e come momento di sintesi unitaria fra i vari organi dello Stato, nel tempo hanno acquisito una valenza operativa sempre più rilevante nel concreto: connotati di mera auctoritas (autorevolezza morale) per usare il linguaggio dei medievisti, si sono poi arricchiti di potestas (potere effettivo) nel pieno rispetto del dettato costituzionale, che ha mostrato di sapersi adattare al divenire politico-sociale. L’eccesso di circospezione manifestato sin dall’origine del legislatore nel delineare la figura del nuovo capo dello Stato, fu lucidamente rilevato da Vittorio Emanuele Orlando, nel corso di un accorato intervento alla vigilia della Costituzione, nella seduta del 22 ottobre 1947 all’Assemblea Costituente, dove lamentò “l’esautorazione più completa di questo futuro capo dello Stato repubblicano. Si direbbe – proseguì – che si tratti quasi di una specie di sfiducia anticipata, di un sospetto continuo verso l’abuso di poteri concessi, anche se sono considerevolmente ridotte le attribuzioni del capo dello Stato, quali spettano ordinariamente nei regimi monarchici. Or tutti ricorderanno lo spirito satirico onde, precisamente a causa di quella scarsezza di poteri, era stato attribuito al Re costituzionale l’appello di “Re travicello”. A questo futuro presidente della Repubblica, si trasferiscono i poteri che prima erano pertinenti al Re, ma si trasmettono in una misura ancor più ridotta! Si può dire che non rappresenti più nulla!

Finché i rapporti tra Governo e Parlamento si sino svolti in un piano di lineare dialettica istituzionale, il compito di ciascun presidente della Repubblica si è mantenuto, fondamentalmente, nell’alveo di una funzione di garanzia delle minoranze. A far data dalla presidenza di Sandro Pertini si è determinata una crescente confusione di ruoli fra i tre Poteri tradizionali – il Legislativo, che è quello sovrano per eccellenza, l’Esecutivo ed il Giudiziario. Pertanto il capo dello Stato si è trovato a dover svolgere una delicata funzione di “ricucitura sartoriale” fra elettori ed eletti, onde evitare che la protesta dei cittadini delusi dalla politica, potesse involversi nel qualunquismo antipolitico o, addirittura, in opzioni eversive dell’ordine costituzionale. Il ruolo presidenziale è pertanto divenuto sempre più incisivo, con la crisi dei Partiti tradizionali e lo sconfinamento di parte della Magistratura nell’ambito del potere legislativo. Il caos istituzionale che ne è derivato, è stato in parte mitigato dagli interventi fattisi progressivamente più frequenti su questioni di rilevanza istituzionale, ad opera dei vari presidenti della Repubblica succedutisi nel tempo, diversamente interpreti della loro funzione arbitrale. Ecco allora che il “ruolo politico”, oggettivamente resosi necessario a carico del capo dello Stato, ha preso corpo nel senso più ampio della parola: cioè degli interessi generali della polis (cittadinanza) durevolmente scolpiti nella Costituzione.

È un dato acquisito sotto il profilo storico-giuridico dell’Italia repubblicana – come ha efficacemente affermato Giuliano Amato in una felice sintesi definitoria – che i poteri del capo dello Stato sono stati legittimamente interpretati “a fisarmonica”, cioè che hanno rivelato una notevole capacità espansiva in presenza di maggioranze deboli e inefficienti, come di una rilevante instabilità di sistema. Quando si parla delle “esternazioni” del capo dello Stato, ci si riferisce alla consuetudine consistente nel rivolgersi direttamente ed in maniera informale all’opinione pubblica, e quindi si tratta di un’ipotesi ben diversa da quella delineata dalla Costituzione: il “messaggio”, che il presidente può inviare solo alle Camere prima di promulgare una legge per chiederne motivatamente il riesame (articolo 74), o per richiamare la loro attenzione su dei problemi avvertiti dalla collettività e non tradotti in appropriate soluzioni legislative. Oggi ogni esternazione funzionale alla garanzia di equilibrio fra i Poteri dello Stato, va considerata come la forma più alta ed aggiornata del ruolo che il presidente della Repubblica è chiamato ad interpretare – sono parole di Calamandrei, come “Viva vox Constitutionis”. Venendo alle attribuzioni codificate del presidente della Repubblica, è il titolo II della seconda parte della Costituzione (articoli 83-91) che lo riguarda direttamente. Per sommi capi ci limiteremo a ricordare che egli rappresenta la unità nazionale, quale “potere neutro” al di sopra ed al di fuori del Legislativo, dell’Esecutivo e del Giudiziario.

Una particolare funzione di garanzia è espletata dal capo dello Stato quale presidente del Consiglio superiore della Magistratura e del Consiglio supremo di Difesa, al fine di salvaguardare l’autonomia di due settori vitali dello Stato, da qualsivoglia condizionamento di parte. Il potere di nominare il presidente del Consiglio dei Ministri, in seguito alla riforma del sistema elettorale, è divenuto ancor più vincolato alle indicazioni scaturenti dalla coalizione elettorale vincente; ma in alcune nomine (Mario Monti ed Enrico Letta), si è parlato di Governi del presidente, per il fatto che c’è stato un previo consenso da parte del Parlamento – se non una addirittura una delega implicita al capo dello Stato – affinché si facesse carico egli stesso di una designazione in grado di coagulare il maggior numero di consensi possibile, data la sua veste istituzionale di Organo imparziale. Occorre la firma sia del capo dello Stato, che del presidente del Consiglio per tutti gli atti che hanno valore legislativo e per gli altri indicati dalla legge. Atti che la prevalente dottrina considera sostanzialmente presidenziali sono: la nomina dei Senatori a vita, quella di cinque Giudici costituzionali, l’invio di messaggi alle Camere cui si è accennato, il conferimento di onorificenze “motu proprio”, il potere di grazia. Fatta queste premesse di ordine generale, riteniamo utile una rapida carrellata sui vari presidenti avvicendatisi dalle origini in poi.

Enrico De Nicola (1946-1948) garante di una pacifica transizione dalla Monarchia alla Repubblica, sostenne che la democrazia non era un fatto meramente aritmetico basato sulla forza dei numeri, ma era – innanzi tutto – consapevolezza e capacità di discernimento, che solo attraverso la cultura potevano acquisirsi. Egli seppe egregiamente navigare “a vista” e suo fu il peso di dover creare, per la prima volta, una prassi istituzionale. Luigi Einaudi (1948-1955) appena nominato al Colle, espresse il rimpianto di “non poter più partecipare ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune; e di non poter più sentire la gioia, una delle più pure che un cuore umano possa provare, la gioia di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui, a confessare a se stessi di avere, in tutto o in parte torto, ed accedere, facendola propria, all’opinione di uomini più saggi di noi”. Considerato il “salvatore della lira”, mirò ad assicurare al Paese stabilità economica e monetaria, a supporto ineludibile anche di quella sociale. Nei suoi discorsi, come nei suoi scritti, spiegò che la scienza economica era subordinata alla legge morale. Giovanni Gronchi (1955-1962) fu fautore della collaborazione dei socialisti, per una più ampia inclusione dei lavoratori, comprendenti anche i ceti medi, cioè l’intero mondo di coloro che vivevano prevalentemente del proprio lavoro. La vita economica doveva favorire una dimensione solidaristica che garantisse il pieno esercizio delle libertà individuali e l’iniziativa privata, ma nell’osservanza della giustizia sociale.

Vittorio Zincone nel cogliere l’esuberanza interpretativa del ruolo da parte di Gronchi, che si sarebbe rivelato particolarmente problematico in politica estera, sottolineò il presidente di una Repubblica parlamentare doveva avere più del confessore, che non del predicatore. Antonio Segni (1962-1964) auspicando una cornice di maggiore benessere economico e di minori sperequazioni sociali, sostenne l’importanza della sicurezza sociale, del diritto al lavoro ed all’istruzione, per “perseguire effettivamente l’eguaglianza nei punti di partenza dei cittadini”. Sostenne che l’attività di coloro che erano preposti ai pubblici poteri, per essere recepita dai cittadini come rispondente a criteri di reale equità, doveva trarre il suo fondamento nella sanità del costume pubblico e privato, nello spirito di morale fortezza e nel senso di equanime giustizia”.

Assai preoccupato per le conseguenze che la crisi economica avrebbe potuto produrre in termini di destabilizzazione sociale, anche per le minacce incombenti dall’Est comunista, invitò il Governo a curare le Forze Armate convenzionali, prendendo a cuore l’effettiva capacità dei Carabinieri a mantenere l’ ordine interno, dietro le linee di un’eventuale resistenza militare avverso aggressioni esterne. La gratuita accusa di tentato golpe che ne derivò, gli cagionò un ictus dopo appena due anni dal mandato, che si concluse drammaticamente. Giuseppe Saragat, (1964-1971), svolse un mandato che concise con la fine del boom economico e con il delinearsi, per la prima volta, del terrorismo (strage di Piazza Fontana), e dei moti di piazza, studenteschi ed operai. Nel luglio1970 il presidente avvertì una profondissima amarezza sul piano personale, in quanto proprio sul tema del disarmo delle forze di polizia, si ebbe l’ennesimo strappo della tela del socialismo italiano, che appena tre anni prima era stata faticosamente ricucita da lui e Pietro Nenni con la nascita del Psu. Nella sua concezione quasi “sacerdotale” della funzione giudiziaria, cogliendone le prime derive ideologiche con la nascita della corrente di “Magistratura democratica”, disse : “Che tragedia! In Italia c’è una Magistratura borbonica e ce n’è un’altra maoista”. Nel merito più in generale del rapporto tra politica e giustizia, Saragat soleva dire – che “Dove entra la politica, la giustizia scappa dalla finestra”.

Giovanni Leone (1971-1978) principe dei penalisti e Uomo di ineguagliato acume ed umanità, dette testimonianza di un servizio generoso reso alle Istituzioni fino all’annullamento di se stesso. Fu fautore della separazione del ruolo del Pm da quello del Giudice, e dell’indipendenza di quest’ultimo “da ingerenze politiche, da suggestioni sociali e culturali”, ma l’indipendenza dell’Ordine giudiziario andava garantita anche nei confronti dell’Esecutivo. Nominato presidente della Repubblica nel 1971, nel suo primo messaggio auspicò una stabile pace sociale, ripudiando il metodo della violenza e dell’intolleranza. Cadde nel nulla il suo messaggio al Parlamento del 1975, dove chiese la lotta alla corruzione ed al clientelismo. L’ultimo anno del suo settennato fu segnato dall’assassinio di Aldo Moro, che avrebbe voluto salvare graziando una terrorista assai malata; ma il giorno dopo tale decisione Moro fu trovato assassinato. Un’orchestrata campagna per la morte civile di Leone, portò alle sue dimissioni dal Quirinale, con accuse tanto fantasiose quanto infamanti. Isolato dal suo stesso partito, Leone fu sacrificato all’insegna della politica della c.d. “solidarietà nazionale” con il Pci. Pertini (1978-1985) innovò il ruolo presidenziale, da funzione da svolgere in maniera quasi notarile, al costante dialogo con il popolo. Al Quirinale non volle socialisti o altra gente di partito, poiché – affermò – “partito vuol dire corrente, camarille, intrigo”. In occasione del discorso per il giuramento, espresse la sua fiducia nell’Europa e nel ruolo dell’Italia come portatrice di pace nel mondo: “Si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte per milioni di creature umane che lottano contro la fame”.

Il valore più prezioso da difendere e consolidare era quello della libertà, per la quale sin da giovane aveva lottato: “Se a me, socialista da sempre – offrissero la più radicale delle riforme sociali a prezzo della libertà, io la rifiuterei, perché la libertà non può mai essere barattata”. Ciò nondimeno “Non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà, come non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale”. La giovinezza era, innanzi tutto, una condizione dello spirito, al cui riguardo osservò: “C’è chi nasce vecchio, e chi vive giovane per tutta la sua vita. Io appartengo a questa seconda categoria. ..Se non volete, cari giovani, che la vostra vita scorra nuda, grigia, monotona, fate quello che abbiamo fatto noi alla vostra età :date alla vostra vita un’idea, una fede, fate che una fede illumini ogni giorno la vostra giornata, ed allora non vi sarete mai pentiti e sentirete che la vita vale la pena di essere vissuta”. Cossiga (1985-1992) fu il più giovane capo dello Stato, attento al sentire della gente comune, alla valorizzazione del ruolo della donna, della famiglia e dei giovani. Nella dialettica democratica bisognava riscoprire la funzione dei Partiti, quali “strumento indispensabile” per realizzare gli interessi generali ; ma se, viceversa, si riducevano a strumenti di mero potere, si apriva il varco “alle degenerazioni degli apparati pubblici, alla corruttela, alle insidie peggiori della vita democratica”. Caduto il Muro di Berlino, capì che la crisi del bipolarismo internazionale avrebbe avuto incisive ripercussioni in Italia più che in altri Paesi, con conseguenze per tutti i Partiti, che furono perciò esortati a gestire la nuova fase storico-politica che si preparava, ma rimase inascoltato. Prese allora avvio l’era delle cosiddette “esternazioni” (o “picconate”). Strapotere dei partiti, assenza di una vera rappresentatività degli eletti, giudici politicizzati o vincolati a logiche corporative: queste erano alcune delle patologie denunziate agli italiani. In conclusione: la richiesta di riforme istituzionali non era solo un problema “politico”, ma era un’istanza civile, morale e sociale da parte della gente comune, disattesa la quale Il 25 aprile1992 si dimise innanzi tempo “per dare un Governo all’Italia”.

Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999) si impegnò a tutelare i principi basilari della Carta fondamentale con fervore quasi religioso, diremmo da “defensor Constitutionis”, a partire dalla forma di governo ivi contemplata di Repubblica “parlamentare”. Un tema centrale fu quello del rapporto tra il problema del lavoro e quello del risanamento dei conti pubblici, al cui riguardo avvertì che “un bilancio dello Stato, tecnicamente perfetto, ma pagato dalla mortificazione della Persona, non è neppure ipotizzabile da una democrazia degna di questo nome”. In tema di giustizia, criticò l’eccesso del ricorso alla carcerazione preventiva, strumento di pressione sull’indagato, abusato da qualche magistrato “un po’ rozzo” come vero e proprio mezzo di tortura: “il tintinnare le manette in faccia ad uno che viene interrogato da qualche collaboratore – disse con felicissima espressione onomatopeica – questo è un sistema abietto, perché è di offesa. Anche l’imputato di imputazioni peggiori ha diritto al rispetto”. Carlo Azeglio Ciampi (1999-206) contribuì al risanamento economico come il predecessore Einaudi. L’autorevolezza acquisita in Italia ed all’Estero, ne favorì l’elezione al Colle in una fase di forte conflittualità in cui fu responsabilmente avvertita dagli opposti schieramenti, la necessità di convergere sulla nomina di una persona di sicura imparzialità e di altissimo spessore morale, civile ed economico. Le linee orientative del suo mandato sarebbero state essenzialmente quelle del rafforzamento della coesione sociale, della difesa dell’unità nazionale, del consolidamento dell’unità europea. Sin dall’inizio il suo stile si caratterizzò per la rigorosa equidistanza dalle parti, con il costante ed accorato richiamo al mutuo rispetto ed alla reciproca legittimazione, necessaria per facilitare le riforme istituzionali con la maggiore condivisione possibile, Ciampi seppe risvegliare con il suo esempio la fierezza e l’orgoglio dell’identità nazionale, conferendo nuova luce al concetto di “Patria”, senza il rischio di fraintendimenti legati a memorie di pregresse esperienze.

Giorgio Napolitano (2006-2015) è stato il primo presidente della Repubblica eletto due volte, in una condizione straordinaria per la drammaticità di una situazione pesantemente condizionata dai mercati finanziari e da vincoli europei inesistenti nel passato. La novità, sin dal primo mandato, fu rappresentata dal fatto che nell’instabilità del quadro politico di riferimento, percepita pure a livello internazionale, anche fuori dai patri confini andò maturando un orientamento volto ad un’interlocuzione privilegiata col capo dello Stato, ritenuto un punto di riferimento sicuro, saldo ed affidabile. Costante fu il suo impegno per il rilancio dell’Europa unita, la lotta alla criminalità interna come al terrorismo internazionale, l’ equilibrio tra i poteri dello Stato. Il suo mandato venne ad acquisire una crescente incisività sui tre poteri tradizionali, sicché iniziò a parlarsi di Repubblica tendenzialmente “presidenziale”, come nel caso del sostegno fornito dal capo dello Stato alle misure dettate da Bruxelles e dalla Bce all’Italia in tema di rigore economico. Nel 2013 Napolitano, rieletto con suffragio plebiscitario dalle maggiori forze presenti in Parlamento, il 22 aprile fece un discorso di una sferzante durezza, innanzi ad un uditorio surreale che applaudiva unanime innanzi ai rilievi critici dell’oratore rivolti proprio agli astanti, che ricordò loro “una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità”.

Nell’ottobre 2013 per la prima volta rivolse un “messaggio alle Camere” sulla questione carceraria, segnata da tantissime violazioni del divieto di trattamenti inumani verso i detenuti, cui andava ad aggiungersi la durata irragionevole dei processi. Insediatosi. Al crepuscolo del dovette sconsolatamente prendere atto del mancato rinnovamento della politica, scaduta nella routine burocratica, nel carrierismo personale, nella miserevole compravendita di favori, nel torbido affarismo e nella sistematica corruzione. Sergio Mattarella, (2015-2022) ha rinunziato all’appannaggio presidenziale disponendo – a seguire – l’apertura del Quirinale alle visite del pubblico, così come della tenuta di Castelporziano. Nelle riflessioni del capo dello Stato è dato cogliere la caratteristica ricorrente della mancanza di “compartimenti stagni” tra i problemi rappresentati, per cui sono frequentemente correlati i temi del rafforzamento della coesione europea dell’etica, dell’ambiente, del lavoro, della famiglia, della cultura, della vita, della dignità non solo dell’Uomo ma dell’intera Natura in una superiore sintesi di armonia universale.

Nella costante attenzione rivolta alle nuove generazioni, ha evidenziato il valore della cultura come fondamento della libertà. Cifra ricorrente nel suo mandato, ispirato al principio della solidarietà in ogni declinazione, è stata la lotta alle povertà vecchie e nuove, alle discriminazioni, alla corruzione, al clientelismo, all’indifferenza verso la disperazione degli immigrati. Con pari determinazione, ha combattuto le mafie non solo come strutture organizzative, ma anche come forma mentis di consorteria nel malaffare, ad ogni livello ed in ogni ambiente. In ambito giudiziario, ha richiamato con fermezza la Magistratura ai valori indispensabili dell’imparzialità, della correttezza, del riserbo, dell’ equilibrio, della ragionevolezza nelle decisioni.


di Tito Lucrezio Rizzo