Vitalizi ad ex parlamentari condannati

Metodi dello Stato garantista: politicamente o giuridicamente corretti?

Di fronte alla questione dei cosiddetti vitalizi bisogna capire se si vuole essere rivoluzionari seguendo il cuore (e sarebbe bello poterlo fare, si sa), oppure se si vuole essere cittadini liberali di stretto rigore giuridico costituzional-garantista: nel primo caso si seguirebbe ciò che potremmo definire “la giustizia sociale ed etica”. Nel secondo caso, invece, seguendo lo stretto diritto con tutto il sistema delle fonti giuridiche e con tutte le preclusioni che di fronte ai diritti quesiti si sviluppano, si rischia d’esser visti come dei seguaci del neo-politicamente-scorretto o come dei conservatori: malgrado tutto il curriculum culturale rivoluzionario e malgrado tutte le buone intenzioni socializzanti, nonché redditualmente redistributive, che si potrebbe in realtà avere in seno al proprio io politico.

La questione dei cosiddetti vitalizi agli ex parlamentari fa parlare di sé, per lo più retoricamente, nelle foibe scavate dalla narrativa maggioritaria di comodo; dove la logica della stretta giuridicità viene messa da parte, e con essa le sudate garanzie dello Stato di diritto costituzionale. Anche se essi – bisogna subito essere eticamente onesti – rappresentano dei privilegi che la storia della nostra post-contemporaneità politica riformista ha fatto bene a superare, soprattutto in epoca di spending review (e visti dall’oggi anche in epoca di Covid-19). Sarebbe davvero bello togliere ciò che sostanzialmente rappresenta un privilegio che fa piovere sempre sul bagnato, quando invece là fuori c’è tanta gente povera e meritevole, su più piani, che non sa come andare avanti nella vita. Tuttavia, il metodo liberale classico non può essere dismesso, altrimenti si scadrebbe in rischiosi giacobinismi che di redistributivo a livello reddituale in realtà non hanno alcunché.

Giuridicamente il vitalizio è un trattamento previdenziale. Non si possono trattare gli argomenti che gravitano intorno alle vertenze sui vitalizi senza tener bene a mente la loro natura giuridica. Tra i più disparati umori vaganti si fa presto a dire no al vitalizio agli ex parlamentari, soffiando sul culto della vendetta intergenerazionale senza discernere tra opinione politica di cambiamento, da un lato, e legalità dall’altro. Le esigenze del giuridicamente corretto possono essere ammorbidite da interpretazioni evolutive disancorate dallo stretto formalismo delle fonti giuridiche, ma questa bella e giusta operazione fuoriesce dalla certezza disciplinare del diritto liberale. Per esercitare un’azione storica di regolamento di confini tra moralismo immorale e diritto costituzionale, tra liberalismo giuridico e subdola anarchia, occorre consultare gli esperti della giuridicità e non gli sciamani delle neo-partitocrazie e movimentocrazie. Queste ultime, di nobile, progressista e rivoluzionario, non hanno alcunché.

Era il 2012, e vennero aboliti i vitalizi: a partire dalla legislatura successiva – quella iniziata nel 2013 – i parlamentari, una volta cessati dal loro ufficio, avrebbero potuto ricevere un trattamento pensionistico calcolato con il sistema contributivo, dai 60 anni di età per chi avesse maturato almeno due legislature, e dai 65 anni per chi avesse alle spalle una sola legislatura. I cosiddetti vitalizi pregressi invece rimanevano, costituzionalmente protetti nell’ineludibile limbo della logica intertemporale del diritto acquisito (anche quelli versati ai soggetti vedovi degli ex parlamentari, come avviene con gli ordinari trattamenti pensionistici di reversibilità).

Quel limbo ineludibile entro cui vige – e non può non vigere – la logica intertemporale dei diritti acquisiti, non può essere giuridicamente eluso. Soltanto una rivoluzione totale che si ponesse in antitesi rispetto all’ordine costituito potrebbe violare quel limbo giuridico, direttamente connesso alle garanzie costituzionali di certezza del diritto. Ma al momento, e nemmeno all’orizzonte, non vi è alcuna rivoluzione totalitaria che vada al di fuori dei limiti e delle dialettiche ordinamentali, in materia di diritti previdenziali acquisiti. Le stesse dottrine pubblicistiche sull’ordine ordinato (ordo ordinatus) e sull’ordine ordinante (ordo ordinans) rispecchiano e rispettano, sempre, i limiti di cui all’articolo 1 della Costituzione italiana: i limiti e le forme entro cui il popolo sovrano rappresentato in Parlamento può agire davanti agli acquisiti diritti individuali, nel rispetto di ogni persona.

La storia del nostro Paese la conosciamo. Il cavallo di battaglia di chi voleva aprire il Parlamento “come una scatoletta di tonno” era la narrativa sulle poltrone chic nonché sui vitalizi dei parlamentari. Nel 2015 la presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini e il presidente del Senato, Pietro Grasso hanno fatto approvare delle delibere dai loro rispettivi uffici di presidenza, cancellando automaticamente il tanto chiacchierato trattamento economico in questione per gli ex parlamentari destinatari di una condanna passata in giudicato.

A partire dal 2018 i grillini, sedutisi sulle poltrone governative, innestavano nell’ordinamento giuridico italiano un metodo ancora oggi alquanto discusso. Secondo la linea di Riccardo Fraccaro, allora ministro per i Rapporti con il Parlamento, il taglio dei vitalizi poteva essere approvato senza una legge ma attraverso delle mere delibere, vedendo protagoniste le presidenze della Camera dei deputati e del Senato. Nel luglio 2018 partiva un primo provvedimento da parte dell’ufficio di presidenza della Camera dei deputati, con il presidente Roberto Fico, e in autunno giungeva il turno dell’ufficio di presidenza del Senato, con la presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati.

Gli ex parlamentari non sono rimasti immobili e, presentati i ricorsi, hanno visto la Commissione contenziosa del Senato annullare la delibera sul taglio dei cosiddetti vitalizi, nell’estate del 2020. Restava aperta la delicata questione sulle delibere Boldrini-Grasso del 2015, le quali prevedevano una sproporzionata, aprioristica e doppiamente punitiva sospensione del trattamento previdenziale, per gli ex parlamentari condannati con sentenza passata in giudicato. I casi dell’ex parlamentare Roberto Formigoni e dell’ex parlamentare gravemente malato Ottaviano Del Turco sono emblematici, e per uno Stato di diritto garantista si pongono come casi paradigmatici.

Essendo i cosiddetti vitalizi dei trattamenti pensionistici dal punto di vista del diritto, è stata considerata la normativa del 2019 in materia. Il decreto-legge numero 4/2019 – quello sul reddito di cittadinanza – ha disposto la sospensione dei trattamenti previdenziali soltanto per chi è condannato a una pena detentiva, con sentenza passata in giudicato per gravi delitti, come associazione mafiosa e terrorismo. La normativa prevede ancora la sospensione suddetta per coloro che sono condannati definitivamente ad una pena detentiva per ogni altro delitto per il quale sia stata erogata, sempre in via definitiva, una pena non inferiore a due anni di reclusione, ma solo nell’ipotesi in cui sussista una volontaria sottrazione all’esecuzione della sanzione penale medesima. Come noto, il caso Formigoni – sul cui trattamento pensionistico il Consiglio di Garanzia del Senato si è pronunciata favorevolmente – non attiene alla mafia e nemmeno al terrorismo, e la sua pena è da scontare ai domiciliari. Sulla questione morale circa i vitalizi agli ex parlamentari condannati, occorrerebbe un discorso differente, ma i giuristi quando trattano materie giuridiche fanno i giuristi. La politica, che fa bene a togliere i vetusti privilegi, sui diritti individuali può riformare con legge in modo equo e giusto per il futuro a partire dall’oggi, ma al netto dei diritti quesiti, giuridicamente retti dai sistemi di garanzia della persona e quindi dalla irretroattività.

La Commissione contenziosa del Senato, bocciando la sospensione dei trattamenti pensionistici a chi sta già scontando determinate pene o a chi già le ha scontate, ha aperto erga omnes una strada procedimentale idonea a falcidiare le delibere del 2015. Queste ultime, emanate attraverso procedimenti poco coerenti con il sistema normativo di pesi e contrappesi istituzionali nonché in eccesso rispetto alle competenze degli uffici di presidenza delle camere, avevano inciso direttamente su beni giuridici di fondamentale rilievo personologico. Le delibere del 2015 sono apparse subito sproporzionate ed elusive del principio di legalità, nel suo corollario di riserva di legge tendenzialmente assoluta, per quel che concerneva la sfera dei trattamenti sanzionatori di carattere comunque afflittivo sulla persona. Il rischio socialmente insito in quelle delibere del 2015, tra l’altro, era quello di creare un precedente istituzionale dotato di una sproporzionata ed incoerente carica stigmatizzante, con un irragionevole automatismo in danno della “categoria” degli ex parlamentari condannati con sentenza passata in giudicato.

Cessando man mano di spiegare i propri effetti nelle vite in carne ed ossa degli ex parlamentari, le delibere del 2015 vedono sgretolare le proprie logiche a-giuridiche. Conseguenza di questo sgretolamento è la riaffermazione sistematica – e non per compartimenti stagno – dello Stato di diritto, nel quale per coerenza ordinamentale non è possibile che le questioni penali diventino l’anticamera dello stigma socioeconomico di una persona. La sovversione dei diritti pensionistici individualmente acquisiti, a fronte di un prestato servizio parlamentare rappresentativo della nazione, non può dipendere di per sé dagli esiti delle questioni giudiziarie penali.

La sospensione del trattamento previdenziale risulta sostanzialmente configurabile come una “pena” materiale in aprioristica aggiunta rispetto ad una già irrogata pena, in danno appunto di chi sta già scontando o ha già scontato una pena, per un determinato reato. L’apriorismo, l’automatismo, lo stigma socioeconomico confliggono con i valori costituzionali, eurounionali e internazionali-convenzionali della nostra cultura istituzionale liberale, in cui la pena ha una funzione retributiva e rieducativa. Da qualche parte, per avallare l’opportunità delle delibere d’ufficio del 2015 con un doppio peso ed una doppia misura insopportabili, a seconda delle circostanze di bandiera, potrebbe essere riesumata la camaleontica teoria dell’atto politico come atto libero nel fine. Questa nobile teorica, in realtà, non risulta affatto pertinente con i profili costituzionali coinvolti nella questione della sospensione dei vitalizi per gli ex parlamentari, condannati con pronuncia passata in giudicato.

I provvedimenti del 2015 si ponevano come dei cortocircuiti extra ordinem nell’ordinamento giuridico costituzionale, non solo sotto i profili sostanziali ma anche sotto i profili procedimentali. Le leggi costituzionali e quelle ordinarie di tipo penale, al riguardo, sanciscono regole e princìpi giuridici, non opinioni. Invece di alterare un sistema costituzionale fondato su pesi e contrappesi, nonché su circuiti procedimentali che esprimono le esigenze liberal-democratiche della netta separazione tra poteri, si può spendere un’adeguata energia per riformare la giustizia italiana. Le riforme della giustizia e delle istituzioni politiche non possono mai avere come stella polare l’invidia sociale o la vendetta intergenerazionale, altrimenti la civiltà delle libertà civiche affonda. Le riforme, se buone, devono potenziare il principio del giusto processo che la Costituzione e il sistema-Cedu giustamente ci impongono di rispettare.

Le sospensioni dei trattamenti pensionistici per gli ex parlamentari condannati, per di più se disposte con provvedimenti abnormi da organi formalmente incompetenti a sancire ulteriori effetti afflittivi sui trattamenti sanzionatori già disposti, si pongono in conflitto con il cardine costituzionale della ragionevolezza.

Dopo anni di populismo allergico al garantismo, iscriviamo nei registri della storia le prime ipoteche culturali, lasciate in Italia dalle retoriche illiberali di questa post-contemporaneità in fragile divenire. Tra retorica e inefficienza, abbiamo assistito alla deparlamentarizzazione della nostra Repubblica nazionale, con il taglio del Parlamento e nel 2020 un referendum costituzionale privo di adeguato spazio in tv. Abbiamo visto il tentativo di nascondere i veri problemi dell’Italia sotto il tappetino bucato dei tagli sui diritti acquisiti, con la mannaia della privazione di trattamento pensionistico a chi è già stato condannato ad una precisa pena scontata o da scontare. Abbiamo visto assorbire i diritti individuali al giusto processo in un tempo ragionevole nelle nebulose maglie di un modello dominante di statalismo perbenista, che scardina l’in-sé della prescrizione dei reati e non elimina il surplus di burocrazia.

Lo Stato liberale odierno non è una bomboniera post-ideologica, bensì una pratica di equilibrio costante nella vita civica ed istituzionale. Anche sul trattamento pensionistico degli ex parlamentari condannati si misura l’essenza liberal-garantista di uno Stato. Il cuore di ciascun cittadino vorrebbe una giustizia sociale più immediata e diretta, e ciò è comprensibile, ma la storia ci insegna che non si può mai passare come trattori sulle esistenze individuali delle persone, di nessuna persona. Il diritto quindi si nutre di un empirismo baciato dalla credibilità razionale, secondo uno stretto rigore logico-consequenziale.

C’è modo e modo per riformare politicamente e per rivoluzionare culturalmente le realtà sociali, secondo una più pregnante forma di giustizia. Occorre farlo rivolgendosi necessariamente al futuro, quanto agli effetti. Il futuro della giustizia non si chiama dittatura post-giacobina. Molti ricorderanno che il dottor Francesco Mauro Iacoviello, Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, nel chiedere ai giudici del collegio chiamato a decidere in ultima istanza sul caso Eternit il proscioglimento dell’imputato per intervenuta prescrizione del reato di disastro innominato, ha concluso la requisitoria sostenendo che “ci sono dei momenti in cui diritto e giustizia vanno da parti opposte”, e che “quando il giudice è posto di fronte alla scelta drammatica tra diritto e giustizia non ha alternativa”. La requisitoria ci ricordava espressamente che un giudice “tra diritto e giustizia deve scegliere il diritto”. Sicuramente ciò comporta dei mal di pancia non indifferenti.

Ogni istituzione che dentro o fuori dalla magistratura esercita una funzione di natura giudicante, è sottoposta alla legalità costituzionale, corroborata dalle garanzie sovranazionali ed internazionali. Al politicamente corretto, sui diritti acquisiti della persona, il giurista sceglie il giuridicamente corretto: è il lavoro. Tuttavia, sarebbe bello – sì! – un mondo migliore, quell’altro mondo possibile realizzabile attraverso processi evolutivi che, penetrando i ragionevoli dubbi lasciati aperti dalla conservazione liberale, portano a condivise riforme redistributive.

Il nuovo liberalismo – demolibertario e liberazionista verso i bisogni urgenti delle società – dovrà fondarsi e rifondarsi periodo per periodo, attraverso un più elevato grado di coesione dialogica e partecipativa tra i vecchi privilegiati ancora in vita e gli sfortunati in sopravvivenza continua. I privilegiati dovrebbero capire che si può rinunciare ad alcuni vetusti privilegi rimasti a galla. Soprattutto quando il mare dei bisogni gli argini che tenevano al riparo scogli giuridici già levigati dalla vita materiale degli individui nelle comunità, soprattutto quando pro-futuro quei privilegi sono già stati superati da un irretroattivo riformismo neo-liberale.

Come su tutto, occorrono nuovi equilibri di pace sociale.

Aggiornato il 01 febbraio 2022 alle ore 11:28