L’uguaglianza al di là dell’egualitarismo

Sulle radici storiche della Costituzione

L’egualitarismo – o, meglio, gli egualitarismi! – tra forma e sostanza storica, si tinge spesso di colori ideologici. Questi ultimi, purtroppo, non sempre tengono conto della coscienza e delle radici costituzionali del principio di uguaglianza, con il connesso divieto di diseguaglianze ingiuste, e con il conseguente divieto d’irragionevoli disparità nel trattamento delle persone, nell’accessibilità alle risorse, nonché nella stessa vivibilità in società. Nel 1948, quando è entrata in vigore la Costituzione italiana, la giovanissima Repubblica nella sensibilità giuridica dominante coincideva per lo più con lo Stato. La riforma della legge costituzionale numero 3 del 2001 ha modificato l’articolo 114 della Costituzione stessa, disponendo che la Repubblica è costituita dallo Stato, dalle regioni, dalle Città metropolitane, dalle province e dai comuni. Nell’ottica novecentesca della fine degli anni Quaranta, pertanto, il soggetto che riconosceva e garantiva i diritti inviolabili era principalmente lo Stato. A metà del XX secolo, lo Stato sociale di diritto al di là della suddivisione regionale dell’Italia avrebbe dovuto essere l’artefice accentrato delle grandi riforme sociali, contro l’emarginazione.

Per capire il senso storico dei princìpi di eguaglianza formale e di uguaglianza sostanziale, sanciti nella Costituzione, è importante studiare i lavori preparatori dell’Assemblea costituente in riferimento all’articolo 3. È stato osservato che mentre nell’articolo 2 sul principio di solidarietà sociale il costituente ha fatto riferimento al concetto di “uomo”, nel senso di essere umano, nel testo definitivo dell’articolo 3 sul principio di uguaglianza il costituente ha parlato di “cittadino”. Da un concetto universalistico si è scesi, così, nell’area linguistica tipica del diritto. Nel primo comma dell’articolo 3 è stato costituzionalizzato il principio di uguaglianza formale. È stato riconosciuto costituzionalmente che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Oggi il senso comune del progressismo politico e giuridico preferisce parlare di etnie, e non di razze.

Nel secondo comma dell’articolo 3 è stato costituzionalizzato il principio di uguaglianza sostanziale o materiale. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Interpretando in maniera evolutiva il secondo comma, i cittadini sono titolari della propria libertà e devono essere trattati con ragionevole uguaglianza, in quanto esseri umani. I cittadini sono considerati anche come lavoratori, in quanto titolari di posizioni dinamiche nella partecipazione all’organizzazione politica, sociale ed economica del Paese. Nei lavori preparatori dell’Assemblea, il principio secondo cui la legge è uguale per tutti, sancito nel primo comma dell’articolo 3, è stato definito come “eguaglianza di diritto” ed al contempo è stato salutato come “eguaglianza di fatto” per il suo riferimento alla pari dignità sociale. Ai padri costituenti era chiaro che il secondo comma rappresentava lo sviluppo del primo. Le linee valoriali di tendenza non erano più incentrate sullo Stato liberale classico dell’Ottocento, ma erano delle linee evolutive, spostate in avanti sulla socialità.

Nel secondo dopoguerra italiano era avvertita l’esigenza di socializzare le libertà della persona, come singola e come associata all’interno delle diverse e plurime formazioni sociali. Il relatore Lelio Basso, uomo della sinistra socialista e fondatore della rivista Il Quarto Stato, espose le visioni critiche verso una eguaglianza che rimanesse allo stadio di eguaglianza meramente formale.

Il socialista Basso aveva infatti sostenuto quanto segue: “Non basta l’eguaglianza puramente formale, come quella caratteristica della vecchia legislazione, per dire che si sta costruendo uno Stato democratico. L’essenza dello Stato democratico consiste nella misura maggiore o minore del contenuto che sarà dato a questo concreto principio sociale”.

Il concreto principio sociale a cui Basso si riferiva era quello di “eguale trattamento sociale”. A questa formulazione del principio, la maggioranza dell’Assemblea preferì la più umanista e meno statalista formulazione della “pari dignità sociale”. Per quel che riguardava l’articolo 3, il presidente di commissione in Assemblea, Meuccio Ruini, aveva sostenuto posizioni di riequilibrio egualitario tra i sessi. Egli nella relazione al progetto ha sostenuto che “Il principio della eguaglianza di fronte alla legge, conquista delle antiche Carte costituzionali, è riaffermato con più concreta espressione, dopo le recenti violazioni per motivi politici o razziali; e trova oggi nuovo e più ampio sviluppo con l’eguaglianza piena, anche nel campo politico, dei cittadini indipendentemente dal loro sesso”.

L’attenzione manifestata da Ruini sulla questione di genere era un sintomo progressista della sua storia politica. Ruini aveva aderito negli anni giovanili al Partito socialista italiano, era stato militante nel Partito radicale italiano, poi nella Unione nazionale di Giovanni Amendola, successivamente in Democrazia del Lavoro (ribattezzato come Partito democratico del lavoro), e infine era pervenuto ad una posizione di politico indipendente. L’onorevole Fanfani, favorevole ad adottare la formulazione della “pari dignità sociale” nell’articolo 3, aveva espresso il suo parere in Assemblea, dicendo che “Noi partiamo dalla constatazione della realtà, perché mentre prima, con la rivoluzione dell’89, è stata affermata l’eguaglianza giuridica dei cittadini membri di uno stesso Stato, lo studio della vita sociale in quest’ultimo secolo ci dimostra che questa semplice dichiarazione non è stata sufficiente a realizzare tale eguaglianza”.

Il riferimento che Fanfani ha fatto alla rivoluzione francese del 1789, insieme alle esigenze sociali emerse nel secolo successivo e a seguire, fanno di questo intervento in Assemblea uno degli interventi più forti e più sensibili sul piano delle evoluzioni storiche. La passione che Amintore Fanfani nutriva verso la storia dell’economia, era chiara a tutti durante la discussione sull’articolo 3. La stessa passione era stata dimostrata nell’articolo 1 della Costituzione italiana, ideato da Fanfani con l’espressione “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Per l’articolo 1 egli aveva mediato tra la proposta del celebre esponente del Partito democratico del lavoro Mario Cevolotto (“L’Italia è una Repubblica democratica”), e la proposta del comunista Palmiro Togliatti (“L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori”). Durante i lavori dell’Assemblea costituente ci fu chi sostenne l’utilità di inserire, nel primo comma dell’articolo 3, il divieto di violare l’uguaglianza anche a causa della diversità di attitudini, oltre che a causa della nazionalità. Nella revisione formale, il Comitato di redazione tolse il riferimento sia alla diversità di attitudini che alla nazionalità, e sostituì l’espressione “gli uomini” con l’espressione “i cittadini”. Lo stesso Comitato aggiunse invece il divieto di violare l’uguaglianza a causa delle differenze di condizioni personali.

In Assemblea ci furono intensi confronti e molte critiche anche sul dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli economici e sociali. L’onorevole Epicarmo Corbino del Partito liberale italiano avrebbe voluto leggere nell’articolo 3 della Costituzione che “È compito dello Stato rendere possibile il completo sviluppo della persona umana”. Egli ha sostenuto quanto segue: “Che cosa significa rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale? Potrebbe significare eventualmente togliere qualsiasi ostacolo di ordine giuridico, economico e sociale, togliere allo Stato la sua natura di Stato. Se l’obiettivo che noi vogliamo raggiungere è quello dello sviluppo della personalità umana, affermiamolo”. Assegnare alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli, economici e sociali, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona, nonché l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dell’Italia, non era una prerogativa soltanto socialista. Anche il pensiero liberale puro partiva dalla garanzia dell’uguaglianza formale, per promuovere l’uguaglianza materiale e le pari opportunità per tutte le persone. Il metodo liberale puro curava la socialità politica senza l’ausilio dei feticci collettivistici della statolatria. Il metodo liberale autentico voleva preservare le libertà individuali durante ogni percorso istituzionale di riformismo sociale e popolare. Il fine sociale della rimozione degli ostacoli non poteva (e non doveva) essere realizzato con i mezzi della repressione illiberale degli individui.

Nella sua poliedricità politica, Ruini, che era stato socialista e poi liberale, radicale dell’epoca e indipendente, affermò che anche un liberista poteva ritenere doveroso rimuovere gli ostacoli, interpretando questi ultimi come ostacoli alla libera concorrenza. Ruini voleva mediare tra le istanze socialiste e quelle liberiste della sua epoca, attraverso gli elastici e magistrali strumenti politici della sua esperienza. Sulla questione dell’articolo 3, in dottrina è stato osservato che l’uguaglianza si è resa storia, legandosi all’affermazione di concreti diritti costituzionali. Negli anni Quaranta, durante i lavori dell’Assemblea costituzionale il socialista Lelio Basso auspicava una formulazione del principio di uguaglianza che andasse oltre il semplice formalismo giuridico. Come ricorda un’autorevole dottrina, nei primi anni Settanta lo stesso Basso aveva poi affermato che egli volle l’articolo 3 perché quell’articolo sarebbe stato idoneo a smentire tutte le affermazioni della Costituzione che dessero per realizzato ciò che in realtà era ancora da realizzare, ossia la democrazia e l’uguaglianza. Il carattere democratico della Repubblica, secondo Basso, non avrebbe potuto essere veramente tale fino a quando l’articolo 3 non sarebbe stato realizzato, e quindi fino a quando non sarebbero state eliminate le disuguaglianze economiche e sociali.

Secondo un autorevole orientamento di dottrina, l’uguaglianza costituzionale consisteva anche nell’impegno della Repubblica a “rendere eguali o più eguali i soggetti, riducendo le asimmetrie potestative, economiche, sociali e culturali fra i suoi membri”. La strada per l’eliminazione delle ingiustizie sociali ed economiche non è mai una strada lineare, e il successivo crollo delle ideologie politiche ha conferito alla scienza giuridica un carico maggiore, anche nella gestione delle aspettative di benessere sociale raggiungibile da ciascun individuo, in relazione ad ogni specifica situazione temporale ed ambientale. La “storia di lotta di classe” si è fatta storia di equilibri pragmatici, che sappiano tenere insieme nel migliore dei modi i fondamentali valori costituzionali della libertà e della uguaglianza. Nella crisi di valori politici degli anni Dieci e degli anni Venti del Novecento, la profondità e la franchezza dialettica dei politici non politicanti d’allora, ci appare autorevole. Al di là di ogni rischio d’anacronismo politico, rileggendo i lavori preparatori sull’articolo 3 della Costituzione repubblicana ancora oggi abbiamo l’opportunità realistica di edificare un metodo di valori ideali ma concretizzabili, senza sventolare facili bandiere ideologiche. L’uguaglianza che fece l’Italia si spogliò dei semplicismi dell’egalitarismo tradizionale. Gli italiani che faranno l’uguaglianza del futuro si armeranno culturalmente di una pazienza riformista, a socialità liberale: tra libera accessibilità all’impresa e mercati aperti, disponibili all’inclusione di ogni meritocrazia.

Aggiornato il 05 febbraio 2022 alle ore 08:04