La giustizia politica è la giustizia della politica sulla politica stessa, o la giustizia della politica per la politica? Lo Statuto albertino agli articoli 36, 37 e 47 prevedeva che il Senato potesse essere costituito in Alta Corte di Giustizia per l’esercizio della funzione giurisdizionale in una serie di ipotesi particolari. Le radici di questa funzione del Senato possono essere rintracciate nel sistema inglese dell’impeachment e, soprattutto, in quello francese della Corte dei pari. Tra gli articoli che all’interno dello Statuto disciplinavano la composizione e le funzioni del Senato (articoli 33-38), l’articolo 36 sanciva che “Il Senato è costituito in Alta Corte di Giustizia con decreto del Re per giudicare dei crimini di alto tradimento, e di attentato alla sicurezza dello Stato, e per giudicare i ministri accusati dalla Camera dei deputati. In questi casi il Senato non è corpo politico. Esso non può occuparsi se non degli affari giudiziari, per cui fu convocato, sotto pena di nullità”. L’articolo 37, poi, era dedicato alle garanzie inerenti all’accertamento della responsabilità penale dei senatori del Regno. La Carta albertina, infatti, in questo articolo disponeva che “Fuori del caso di flagrante delitto, niun Senatore può essere arrestato se non in forza di un ordine del Senato. Esso è solo competente per giudicare dei reati imputati ai suoi membri”.

Tra gli articoli che invece lo Statuto riservava specificamente alla disciplina costituzionale della Camera dei deputati (articoli 39-47), l’articolo 47 sanciva una norma fondamentale, al contempo sostanziale e processuale. Nel regolare la legittimazione attiva ad accusare giudizialmente i ministri del re, con la conseguente possibilità di processarli davanti all’Alta Corte di Giustizia senatoria, l’articolo 47 statuiva che “La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re, e di tradurli dinanzi all’Alta Corte di Giustizia”. L’Alta Corte di Giustizia ha operato in una speciale forma di autodichia relativamente ai reati dei senatori, durante le diverse fasi di vigenza dello Statuto albertino. A partire dal 1848, anno in cui la Carta albertina fu ottriata da Carlo Alberto, divenne astrattamente possibile costituire il Senato in Alta Corte. Con l’unificazione italiana, a partire dal 1861, le disposizioni statutarie furono estese a tutto il Regno per cui le funzioni giurisdizionali del Senato restarono in vigore fino all’avvento della Repubblica. Anche durante il periodo fascista il Senato costituito in Alta Corte di Giustizia ha svolto la propria attività giudiziaria, occupandosi – tra i vari casi – dell’accertamento e della valutazione dei fatti riguardanti l’omicidio di Giacomo Matteotti nel processo a carico del senatore Emilio De Bono.

Nell’ordinamento fascista i princìpi delle conquiste liberali ottocentesche vennero compressi a causa dell’affermarsi di un modello autoritario di Stato. Una parte della dottrina verso la fine degli anni Venti del XX secolo, sulla scorta di quanto sottolineato anche dal senatore Ettore Ciccotti, aveva sostenuto che l’articolo 36 dello Statuto virtualmente non esistesse più, sia riguardo ai giudicanti che riguardo ai senatori giudicabili. La dottrina in questione ha infatti rilevato che malgrado il giudizio di alto tradimento fosse affidato al Senato costituito in Alta Corte, il regime fascista aveva emanato una legge per la difesa dello Stato con la connessa creazione di una competenza speciale. Secondo questa normativa qualora un senatore fosse imputato per un fatto di alto tradimento sarebbe stato giudicato dal Tribunale speciale. Quella del Tribunale speciale, pertanto, può essere inquadrata come un’ipotesi di giurisdizione speciale che derogava alla già specifica giurisdizione del Senato costituito in Alta Corte. Per quanto riguardava il giudizio a carico dei ministri, poi, l’emanazione delle leggi sulla rappresentanza politica e sulle prerogative del Capo del governo durante il regime fascista ne aveva reso difficile, già sul piano astratto, la trattazione in Alta Corte di Giustizia.

Complessivamente, dallo studio delle fonti conservate nell’Archivio Storico del Senato, a Roma, è stato possibile individuare 378 procedimenti trattati dall’Alta Corte in questione. Ho avuto modo di occuparmi di queste questioni di politologia e politica istituzionale del diritto, ed in particolar modo della cosiddetta “giustizia politica”, partendo proprio dallo studio tecnico-giuridico dei dati storici delle epoche di riferimento. Ho condotto una lunga ricerca accademica, quando facevo il ricercatore a Roma, prima di andare in Direzione amministrativa a Palazzo Vecchio a Firenze, per poi di nuovo ritornare a Roma ma in Avvocatura generale dello Stato dove ora opero (Roma affascina così tanto che risulta difficile lasciarla per troppo tempo!). Nella mia ricerca accademica, che ho avuto modo di analizzare lo stile meta-giudiziario specialistico dell’Alta Corte senatoria d’età statutaria, immergendomi nei fascicoli a Via della Dogana Vecchia 29.

Le decisioni assunte dal Senato costituito in Alta Corte hanno spesso affrontato questioni di ampia risonanza, come nel caso del processo a carico del senatore ammiraglio Persano, ritenuto responsabile della disfatta della flotta italiana sotto il suo comando nelle acque di Lissa, nel 1866. Una grande risonanza hanno assunto anche i processi a carico del ministro della pubblica istruzione Nunzio Nasi, e a carico degli amministratori della Banca italiana di sconto, a cui veniva imputata la responsabilità del fallimento della Banca medesima. Molti processi venivano celebrati per fatti che integravano fattispecie contravvenzionali e non delittuose. Fra le decisioni emanate nel periodo intercorso tra il 1867 e il 1900, e quindi dalla decisione n. 1 alla decisione n. 69, si contano tre pronunce di condanna. Fra le decisioni emesse nel periodo intercorso tra il 1901 e il 1911 con le pronunce dalla n. 70 alla n. 135, sono presenti due condanne nelle sentenze numeri 108 e 111. La prima, emessa il 24 febbraio 1908, riguardava Nunzio Nasi, a carico del quale erano state dichiarate la colpevolezza a titolo di peculato continuato.

Fra le decisioni del periodo intercorso tra il 1901 e il 1911 si registrano circa sessanta pronunce di non luogo a procedere, talvolta perché il corso dell’azione penale cessava per via di oblazioni, talaltra in virtù del rigetto dell’opposizione contro l’ordinanza di proscioglimento, e comunque perché spesso veniva disposta l’archiviazione dei casi. Fra le decisioni del periodo tra il 1912 e il 1917, ossia dalla pronuncia n. 136 alla n. 210, si registra un alto numero di formule di non luogo a procedere – circa settanta – e una in cui era esplicita la formula di condanna. Fra le decisioni assunte nel periodo intercorso tra il 1918 e il 1923, con le pronunce dalla n. 211 alla n. 256, si registrano alcune condanne. La Commissione d’accusa dell’Alta Corte il 15 novembre 1923 ha dichiarato colpevole il senatore Luigi Albertini della Società editrice del Corriere della sera, in quanto responsabile per non avere impedito la pubblicazione per riassunto della requisitoria del procuratore generale in un procedimento penale in corso di istruzione, pubblicazione curata da Luigi Galdanigo, il quale pure è stato condannato alla pena di lire mille di ammenda, dichiarata poi condonata. Anche allo stesso senatore non è stata concretamente applicata alcuna sanzione, poiché nella medesima pronuncia veniva dichiarata l’estinzione della relativa azione penale per l’intervenuta amnistia.

Nelle decisioni dalla n. 257 alla n. 300, in riferimento al periodo intercorso tra il 1924 e il 1929, si registrano poco più di quaranta dichiarazioni di non luogo a procedere, alcune pronunce in cui è stata espressamente dichiarata l’assoluzione, e una, la n. 267-bis, in cui è stato condannato il senatore Eugenio Figoli des Geneys all’ammenda di lire cento per omessa assicurazione di operai per gli infortuni sul lavoro. Particolare importanza ha rivestito il caso dell’omicidio di Giacomo Matteotti. Il 12 giugno 1925, nel procedimento a carico del senatore Emilio De Bono, la Commissione d’istruzione ha emesso una pronuncia di non luogo a procedimento penale per inesistenza dei fatti imputatigli di partecipazione ad associazione a delinquere, di favoreggiamento in giuochi d’azzardo, di impedimento dell’asta pubblica per la vendita di materiale bellico, di vendita di armi e munizioni, di acquisto di alberghi in determinate circostanze; e, ancora, per non aver egli concorso nei fatti di invio di una squadra punitrice a Ferrara e di organizzazione dell’assassinio dell’onorevole Matteotti. Il caso Matteotti fu un caso di forti ingerenze d’interessi politici di regime nella giustizia.

Nel periodo ricompreso tra il 1930 e il 1937, le dichiarazioni di non luogo a procedere e di non doversi procedere all’interno dei dispositivi delle decisioni numeri 301-346 sono state meno di quaranta. Fra le decisioni dalla n. 347 alla n. 378, ossia nel periodo intercorso tra il 1938 e il 1947, si contano circa trenta pronunce di non luogo o non doversi procedere. Una parte della dottrina d’inizio Novecento ha spiegato la ratio della istituzione dell’Alta Corte di Giustizia senatoria, con particolare riferimento alla competenza per il giudizio sui crimini di alto tradimento e di attentato alla sicurezza statuale, riferendosi al concetto di rappresentanza della nazione. È stato a tal proposito osservato come negli ordinamenti costituzionali di vari Paesi i reati che interessavano tutta la nazione fossero in genere deferiti ad organi che rappresentassero l’intera nazione medesima. La necessità di una giurisdizione speciale di alto prestigio e di carattere rappresentativo-nazionale era inserita tra le riflessioni dottrinali sulla categoria penalistica dei cosiddetti “delitti di Stato”. Le tendenze liberali moderate della dottrina furono presto neutralizzate dall’irrompere di alcune tra le teorie organiciste dei pensatori italiani che si accostarono all’idea di Stato fascista, in cui e attraverso cui le realtà sociali avrebbero dovuto essere assorbite per essere riconosciute. Non a caso durante la stagione fascista il giurista penalista Arturo Rocco, in un suo intervento nei lavori preparatori della Commissione ministeriale di riforma del codice penale degli anni 1927-1928, aveva correlato la dicitura di “delitti contro la personalità dello Stato” all’idea secondo cui lo Stato fosse “una persona in senso sociale, politico, giuridico”.

Nell’Europa della seconda metà del XIX secolo e dei primi anni del XX secolo, invero, una parte consistente della dottrina pubblicistica aveva già elaborato alcune teorie sullo Stato partendo da concezioni rigorosamente formalistiche, incentrate sul concetto di Stato-persona. Esponenti del positivismo giuridico tedesco come Karl Friedrich von Gerber, Paul Laband e Georg Jellinek avevano specificato la teoria dello Stato-ordinamento personificando il concetto di Stato, corroborando e sviluppando le visioni organicistiche presenti in dottrina. Il rapporto tra lo Stato e la società non era concepito come una relazione di immedesimazione e di servizio attraverso il pieno sviluppo della rappresentanza politica della società nelle istituzioni. Il diritto, quale dato formale dello Stato-persona, veniva spesso salutato come uno strumento utilizzato per dare “la sua sanzione formale ad una situazione di fatto”. Il fascismo piegò le teorie organicistiche dello Stato-persona in una dimensione che rifiutava il modello di Stato liberale faticosamente edificato nell’Ottocento, e costruì una dittatura autoritaria e illiberale. Nella dittatura fascista gli equilibri e le sensibilità istituzionali precedentemente maturate, come quelle inerenti al garantismo speciale del Senato costituito in Alta Corte di Giustizia, risultarono aprioristicamente alterate. Sull’odierno, semplicistico pressappochismo politologico della politica attuale, anti-analitico e talvolta anacronistico-di-comodo, occorre analizzare veramente i dati di realtà storica, considerandoli in modo opportuno: per la coscienza del domani, a partire dall’oggi.

Aggiornato il 10 ottobre 2022 alle ore 10:01