Giustizia tributaria: necessità del transito generalizzato

La mina vagante per le imprese dei magistrati inesperti

Continua la telenovela della parte ordinamentale della riforma della giustizia tributaria, varata con la legge 130/22 da un Parlamento sciolto su proposta di un Governo dimissionario.

Ormai siamo alla farsa. Non lo dico solo io. Ecco uno stralcio della relazione del presidente del Consiglio superiore della giustizia tributaria, Antonio Leone, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario tributario 2023, avvenuta lo scorso 14 marzo nella Sala della Regina presso la Camera dei deputati: “Una riforma frettolosa, che sta creando difficoltà applicative, e che invece di risolvere i problemi (pochi) di questa giurisdizione li sta creando (…) Numerosi sono gli indicatori della apparente non indipendenza degli attuali e futuri giudici e magistrati tributari, alcuni dei quali si rinvengono anche nella legge di riforma. Ad esempio: inquadramento ordinamentale dei giudici in capo sostanzialmente al Mef; personale delle Corti tributarie dipendente sempre dal Mef e non gerarchicamente “utilizzabile” da parte dei giudici; erogazione e gestione dei mezzi finanziari per il funzionamento delle Corti da parte dell’amministrazione finanziaria; mancanza di un ruolo autonomo degli amministrativi del Cpgt. (…) Per quanto riguarda il tanto atteso transito dei 100 magistrati dalle altre giurisdizioni, lo “start up” della giustizia tributaria, sono pervenute solo 37 domande”.

Come previsto, dunque, il “transito” alla magistratura tributaria a tempo pieno dei 100 giudici tributari togati è stato un flop. E adesso, “che fare?”, direbbe la buonanima. Tranquilli, le teste d’uovo ministeriali non riposano mai e – secondo le indiscrezioni – hanno già partorito un’altra ideona: sì al transito anche di 100 giudici tributari non togati – avvocati o commercialisti – ma solo se in ruolo da almeno 20 anni e con età massima di 65 anni. Non è difficile prevedere che anche questo sarà un flop. I professionisti con questi requisiti sono pochissimi.

Ma perché, poi, questi requisiti ad capocchiam? Non vogliamo dar credito alle voci di corridoio, che sussurrano di un aiutino a qualche parente di esponenti governativi per far fuori una concorrenza agguerrita. E quindi ricordiamo che i giudici tributari iscritti nel Ruolo unico sono tutti giuridicamente uguali, per cui queste fantasiose discriminazioni non faranno altro che alimentare il contenzioso anche costituzionale, paralizzando l’avvio della riforma.

Ci vuole così tanto a capire che, quando si cambia regime, il transito automatico è una necessità, oltre che il solo criterio razionale per conservare il patrimonio di professionalità maturato dall’organico esistente? Oltretutto, con questo meccanismo si risparmierebbero i soldi necessari per lo svolgimento dei mega-concorsi previsti – che peraltro manderebbero a regime la nuova giustizia tributaria solo tra 10 anni – e si consentirebbe un avvio immediato della riforma ordinamentale, via via integrata da piccoli concorsi più frequenti, tarati sul numero delle fuoriuscite dei vecchi giudici dal Ruolo unico, votato all’estinzione entro circa quindici anni.

Si obietta, però, che facendo transitare tutti gli attuali giudici nella nuova magistratura tributaria, si andrebbe sovraorganico. E così aumenterebbero i costi. Falso. Anzitutto, è stato già dimostrato che il Mef, circa il fabbisogno di magistrati tributari, ha nettamente sbagliato i suoi calcoli per difetto. In secondo luogo, non è detto che tutti gli attuali giudici, che sono anche professionisti, abbiano interesse a transitare nella nuova magistratura. La scelta potrebbe non essere economicamente conveniente.

Un sistema sensato, dunque, dovrebbe prevedere il transito su opzione di qualsiasi giudice tributario risultante dal Ruolo unico al primo gennaio 2022, ossia – in termini sostanziali – la facoltà del passaggio dal part-time al tempo pieno (con rinuncia all’attività professionale). Troppo lineare in un Paese in cui pullulano gli Ucas (Uffici complicazioni affari semplici).

Ma il vero lato oscuro del pastrocchio ordinamentale della riforma si materializzerà quando la fase transitoria del reclutamento sarà superata e verranno avviati i nuovi concorsi: c’è, infatti, il rischio di una Waterloo per le imprese contribuenti, dovuta al prevedibile calo di professionalità delle decisioni, che si appiattiranno sulle prassi del Fisco.

Avere previsto, infatti, un concorso di primo, anziché secondo livello per l’accesso alla magistratura tributaria, vuol dire che i futuri magistrati tributari saranno giudici puramente teorici (peraltro selezionati e formati dal Mef), neolaureati senza alcuna esperienza di amministrazione di aziende – a differenza degli attuali giudici tributari “onorari”, selezionati tramite concorso pubblico per titoli professionali – e avranno il potere di decidere su importanti interessi economici, senza aver sperimentato materialmente cosa sia – e con quali problemi debba misurarsi – la gestione delle imprese.

A riprova dell’errore strategico commesso, forse, è il caso di ricordare quanto avvenuto nella giurisdizione ordinaria laddove, per ovviare a una sentita carenza di concretezza e professionalità del giudice generalista in materia aziendale, con l’articolo 2 del dl del 24 gennaio 2012, numero 1, si è istituito il Tribunale delle imprese, una sezione specializzata presso i Tribunali e le Corti d’appello con sede nei capoluoghi di ogni regione, i cui componenti sono selezionati per specifica competenza nel settore.

Se lo si è dovuto fare per il diritto commerciale, a maggior ragione deve farsi per il diritto tributario, che non è roba per topi di biblioteca. Sì, dunque, al reclutamento dei futuri magistrati tributari tramite concorsi di secondo livello, sullo schema di quelli utilizzati per la selezione dei magistrati amministrativi o contabili.

(*) Giudice tributario, avvocato e dottore commercialista

Aggiornato il 28 marzo 2023 alle ore 13:06