Riforma della giustizia, la responsabilità del giudice

La riforma della giustizia è uno dei punti considerati imprescindibili dalla Commissione europea imposti all’agenda di Mario Draghi per ottenere i 250 miliardi di euro del Recovery fund per cui, stavolta, dopo vari tentativi andati a vuoto, potrebbe finalmente vedere luce in tempi brevi, anche se non sarà facile trovare un accordo tra le forze di maggioranza, perché il tema è divisivo, nonostante gli sforzi del ministro della Giustizia, Marta Cartabia.

Per essere credibile, la riforma dovrà interessare sia il settore civile che quello penale perché entrambi giunti al capolinea. La lentezza dei processi civili costa al Paese un punto in meno di Pil all’anno ed il Recovery si gioca anche su questo, mentre nel processo penale la situazione è ancora più complessa perché sono in gioco le libertà personali. Anche per via degli scandali che hanno recentemente interessato il Csm (Consiglio superiore della magistratura), ormai soltanto il 20 per cento dei cittadini si fida della giustizia italiana, secondo l’Istituzione europea Ocse, per cui appaiono maturi i tempi per una rivoluzione copernicana del sistema che possa migliorare la qualità del servizio.

Poiché la riforma integrale del codice di procedura penale del ministro Giuliano Vassalli del 1989 ha distrutto il processo penale, peggiorando il codice Rocco del 1930, l’esperienza suggerisce di lasciare immutato l’impianto base del codice vigente perché c’è il rischio che l’odierno legislatore possa solo togliere garanzie processuali e non fornirne ulteriori. La strada maestra è quella di responsabilizzare meglio i principali protagonisti del processo, che non sono né gli avvocati né il personale amministrativo dei Tribunali ma i giudici, introducendo una responsabilità diretta per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni, che porrebbe fine ad ogni discussione su tutte le altre questioni, come la prescrizione o la separazione delle carriere tra giudice e pm.

L’attuale sistema di responsabilità indiretta introdotto dal referendum del 1987 prevede che il cittadino possa rivalersi solo nei confronti del governo per i danni subiti dall’attività giudiziaria, ma tale modello è fallito sulla pelle dei cittadini ed è funzionale ad una magistratura che non esiste più. Andrebbe sostituito con un modello che fornisca al cittadino strumenti di maggiore tutela anche mediante un controllo sul comportamento del magistrato laddove vengano accertate violazioni delle regole da parte di chi deve farle rispettare agli altri. Altra causa che ha ridotto il sistema giudiziario al collasso – totalmente ignorata dai media di qualsiasi casacca – è l’assenza di una responsabilità del magistrato nel “merito” delle proprie valutazioni che, incrociata al modello di responsabilità “indiretta”, ha portato ad una progressiva degenerazione del sistema. È questo il vulnus che ha permesso, in alcuni casi, un uso strumentale della giustizia penale, poiché il giudice non è mai responsabile delle valutazioni assunte nel perimetro dei propri provvedimenti.

In origine, la legge aveva correttamente previsto tale “irresponsabilità” a presidio del principio costituzionale di autonomia e indipendenza dalla magistratura da ogni altro potere e si trattò di una decisione ragionevole, perché il contenuto del provvedimento giudiziario si accompagnava, solitamente, ad una presunzione assoluta di affidabilità, in quanto accadeva raramente che il giudice sbagliasse la valutazione degli elementi di prova travisando i fatti processuali.

In questo quadro, l’“irresponsabilità” era bilanciata dalla possibilità, per i cittadini colpititi da provvedimenti ingiusti, di far valere le proprie ragioni solo nei successivi gradi di giudizio, con la garanzia di giudici più esperti applicati alle corti di secondo grado ed alla Corte di Cassazione, unico giudice nazionale di terzo grado. Questo impianto, disegnato quasi un secolo fa, è fallito e ne hanno fatto le spese troppi innocenti perché, medio tempore, questa “irresponsabilità”, troppo ampia, ha permesso a qualche magistrato di potersi “sbizzarrire” nel perimetro del provvedimento giudiziario, in quanto un eventuale “sconfinamento” non può essere fonte di alcuna responsabilità. Questo vulnus, portato ad estreme conseguenze solo da quella parte più ideologizzata della magistratura, ha comportato che i giudici, in qualche caso estremo, abbiano perso di imparzialità nei loro provvedimenti disattendendo gli elementi di prova acquisiti agli atti, in quanto l’attuale ordinamento non prevede un bilanciamento al potere discrezionale del giudice, che permetta ai cittadini di sindacare la congruità motivazionale delle sentenze e di rivalersi direttamente sul magistrato in caso di errore giudiziario.

Quindi, oltre a riformare il Csm per porre un freno alla degenerazione del sistema delle correnti dell’Associazione nazionale magistrati, il legislatore dove introdurre un nuovo modello normativo di responsabilità del giudice che garantisca maggiormente i cittadini dal rischio di essere vittime di ingiustizie. La responsabilità, oltre che civile e disciplinare, deve avere anche un rilievo penale, introducendo nel codice – nel rispetto dei principi di tipicità, di tassatività, di sufficiente determinatezza e di irretroattività della fattispecie – l’ipotesi di reato che punisca l’abuso quando sia comprovato un diniego di giustizia, anche in termini colposi. Ciò eliminerebbe margini valutativi nella discrezionalità che hanno prestato il fianco ad abusi processuali attraverso la forzatura nella valutazione degli elementi di prova a carico che hanno rovinato la vita a troppe persone innocenti. In questo modo, alcuni giudici la smetterebbero anche di fare “politica” in quanto il provvedimento giudiziario sarebbe fonte di responsabilità diretta, costituendo, in casi tassativamente previsti dalla legge, anche un illecito penale.

E la nuova fattispecie di reato dovrebbe essere di competenza non di altri magistrati, ma di un giudice formato solo da privati cittadini, una giuria popolare come negli Stati Uniti oppure a composizione mista come l’attuale Corte d’Assise, composta da due giudici togati e da sei giudici popolari. Contrariamente a qualunque strumentalizzazione di sorta, questa rivoluzione copernicana non comporterebbe alcuna paralisi per la giustizia, perché la regola deve essere che sentenze e provvedimenti giudiziari debbano rispondere sempre al contenuto delle acquisizioni processuali.

Anche questo è il significato de “La legge è uguale per tutti” che campeggia nelle aule di giustizia e che il giudice ha alle proprie spalle quando, in nome del popolo italiano, legge, in piedi, il dispositivo di sentenza, sia esso di condanna o di assoluzione. La giustizia, per essere la cosa seria che pretende di essere, deve rovinare meno vite umane e deve assumersi maggiori responsabilità, mentre il numero di errori giudiziari è in costante e preoccupante crescita, in base ai dati del ministro della Giustizia che, dal 1992 ad oggi, è stato subissato da oltre 30mila domande di risarcimento danni per ingiusta detenzione costate ai contribuenti 900 milioni di euro, secondo il quotidiano “La Nazione” del 27 aprile.

“Lasciate ogni speranza voi che entrate” avrebbe suggerito il grandissimo poeta fiorentino Dante Alighieri se gli avessero permesso di trovarsi, di questi tempi, all’ingresso di qualche Tribunale italiano.

Aggiornato il 12 maggio 2021 alle ore 13:32