Olimpiadi, chi è Marcell Jacobs “l’italiano di El Paso”

Il divisivo mondo del “politicamente corretto” non ha risparmiato uno dei momenti più belli di questo sciagurato tempo. Mi riferisco al “pomeriggio d’oro dell’atletica leggera”, quando due “azzurri”, Lamont Marcell Jacobs e il capitano della nazionale Gianmarco Tamberi, ci hanno regalato due medaglie olimpiche e due imprese straordinarie. Marcell Jacobs ha vinto i 100 metri con 9’80’’, stabilendo il nuovo record italiano ed europeo, sbaragliando a sorpresa gli avversari e toccando il mito. Perché lassù, ai pianti altissimi della corsa, prima c’era solo il nome di Pietro Mennea, l’italiano che col titolo di campione nei 200 piani, conquistato a Mosca 1980, stabilì il primato mondiale rimasto tale dal 1979 al 1996 e tutt’ora – pensate, dopo quarant’anni – è ancora il primato europeo. “Il capitano” Tamberi, invece, di Civitanova Marche, è figlio dell’ex saltatore in alto e primatista italiano Marco Tamberi, il papà che lo allena, e fratello di Gianluca Tamberi anche lui primatista italiano juniores del lancio del giavellotto. È un atleta così “bello” che fa anche il modello e l’attore. Nella domenica di Tokyo Gianluca ha “strappato” la medaglia d’oro nel salto in alto al leggendario asiatico del Qatar, Essa Barshim, già tre volte olimpionico e dunque il “re della specialità”, aggiudicandosi il pari merito. Barshim non ha fatto polemiche, anzi è stato il primo ad andarsi a congratulare, ad abbracciare l’avversario sventolando con lui le proprie bandiere, perché l’asiatico sa che l’italiano può fare di più: a Tokyo ha saltato 2,37 metri, ma il suo miglior salto è 2,39 metri.
Tutto in dieci minuti da sogno. Jacobs primo nella corsa e Tamberi primo, a pari merito, nel salto in alto. Cos’è che non è andato allora?

Era tutto meraviglioso fino a che non sono entrati in scena i “commentatori politicamente corretti”, i soliti leoni da tastiera e gli ingarbugliatori. Perché tra il “mito Mennea”, “il razzo Jacobs” e “il Tamberi volante” hanno fatto partire la gara del chi fosse “il più italiano dei tre”. In una manciata di ore si è arrivati di filata a sostenere che non ci sono più scuse, almeno nello sport si deve varare subito lo Ius Soli, come ha annunciato anche il presidente del Coni Giovanni Malagò, spostando la medaglia della corsa a sinistra, nel Pd. Intanto gli “Zan dell’immigrazione” hanno disseminato il web di nemmeno larvate minacce dal tono “chi dice che Jacobs non è italiano?”, intanto che il Corriere della Sera, cioè come Rai 1 la “messa degli italiani”, aveva titolato: “Jacobs, l’italiano più veloce di tutti i tempi”. Vedete che cosa può combinare la politica! Ai miei tempi si diceva: “La politica non deve entrare nello sport” e guai a litigare perché gli allenatori ci spiegavano che eravamo “tutti azzurri”.
Dunque, Pietro Mennea è nato a Barletta il 28 giugno 1952 ed è morto il 21 marzo 2013. Piccolo, esile, bianco quasi pallido, lo chiamavamo “la Freccia del Sud”. È stato l’unico duecentista della storia che si è qualificato per quattro finali olimpiche e che ha stabilito record leggendari. Al contempo studiava, ha conseguito quattro lauree, tant’è che ha tentato la politica, ma inutile dire “senza successo” (Italia dei Valori, Forza Italia e Pri-Liberal con Vittorio Sgarbi), ha scritto saggi, ha svolto l’attività di avvocato e di commercialista. Un inequivocabile italiano puro esempio di talento italico. O no, mi sbaglio?

Invece, vediamo chi è Lamont Marcell Jacobs. Un “oriundo” forse? Dal latino orior, cioè nascere, trarre origine, che indica “chi è nato e risiede in una città o nazione di cui ha anche acquistato la cittadinanza, discendendo da genitori o antenati là trasferitisi”? O Marcell può definirsi un “naturalizzato italiano”? O più semplicemente un figlio di padre straniero e madre italiana. Ma si può dire ancora madre e padre? Questo è il punto. Perché Marcell è nato a El Paso, il 26 settembre 1994 da madre italiana, Viviana, e padre texano conosciuto a Vicenza, dove l’uomo era militare. I due si trasferirono poi nella cittadina paterna, enclave spagnola ai confini col Messico. Ma, pochi giorni dopo la nascita di Marcell, il signor Jacobs venne stanziato in Corea del Sud e la moglie Viviana decise di non seguirlo. Qui si divide la vita del nostro atleta! E per chi come me è stato a El Paso e ha voluto passare il confine per andare in Messico a capire le differenze, oggi vedrà bene nell’astro dell’atletica i suoi trascorsi, la sua gioia di portoricano portoghese per intenderci, quei bei volti di maschi orgogliosi e femmine alla Jennifer Lopez, i riflessi ambrati della pelle marrone, gli occhi neri ma non degli afroamericani, gli zigomi segnati e sporgenti, i tratti inequivocabili dell’identità, qualunque cittadinanza uno prenda. Jacobs aveva fino a poco fa quella statunitense.

A pochi mesi Marcell con la mamma è arrivato a Desenzano del Garda, in provincia di Brescia, dove è cresciuto e ha iniziato la sua carriera sportiva. A dieci anni mostrava già un eccellente sprint, lo stesso che ieri lo ha consacrato sul podio, ha praticato il salto in lungo e poi si è dedicato alla corsa. E dunque chi è? Io direi “l’italiano di El Paso”, per quello che vidi allora in quella indimenticabile estate italiana del 1974, quando finita la licenza liceale, mi concessi un giro premio per tutta l’America con due amici e una collega giornalista come me, con mio padre e mia madre che seguivano il giro su una cartina da casa puntando i luoghi e preoccupandosi quando dissi loro: “Vado anche in Messico!”. Ma non in Messico-Messico, dove sono stata anni dopo, ma al di là di El Paso. Una esperienza indimenticabile, da brividi, solo una giornalista come ero io poteva pensare “ce l’ho fatta”: texani, messicani, portoricani, spagnoli di qua e di là che ci sorridevano, povertà, bisogno, commerci di frontiera, specialità gastronomiche e la natura. Come cambiava in pochi chilometri la natura! Questo io scrutavo, lo stesso che osservo ora in Marcell Jacobs, in tutto. E ho ragione.

Perché ho subito capito, a parte le divertite spiegazioni del campione (“certo che mi sento italiano in ogni cellula, e non parlo una parola di inglese”), che ha una compagna di quelle parti, Nicole, la sua Jennifer, e due figli come loro. E Nicole Daza in un video il giorno prima della gara, gli ha detto testuale: “Ciao amore mio, volevamo mandarti un grosso in bocca al lupo. Sappiamo quanto sacrificio e impegno ci hai messo ogni giorno, e noi siamo orgogliosi e fieri di te. Ricordati che per noi sei il nostro numero uno”. Che suona come dire “Guapo, non fare scherzi!”. E tu, Aldo Cazzullo, non dire amenità: Grazie ai nuovi italiani abbiamo fatto e faremo cose che non eravamo capaci di fare: non da ultimo, vincere clamorosamente la finale olimpica dei 100 metri”. Perché questo titolo spetta all’italianissimo Pietro Mennea, poi c’è Jacobs che sfida i velocisti neri da oriundo italiano, e infine c’è il parimerito italiano Tamberi che ha sfidato l’asiatico del salto. E poi c’è “il talento”, come urlo da un pezzo, che vince tutte le battaglie.

Aggiornato il 02 agosto 2021 alle ore 14:04