Rapporto pedofilia in Francia: numeri non controllati e invasioni di campo

Si legge nel Vangelo secondo Matteo (capitolo 10, verso 16) che Gesù Cristo esortò i suoi discepoli ad essere non solo “semplici come colombe” ma anche “ prudenti come serpenti”. Se la Conferenza episcopale francese (Cef) e la Conferenza dei religiosi e religiose di Francia (Corref) avessero tenuto presente questa esortazione ci avrebbero, forse, riflettuto prima di promuovere la costituzione della “Commissione indipendente” che, presieduta dal vicepresidente onorario del Consilio di Stato Jean-Marc Sauvé, avrebbe dovuto, secondo la lettera d’incarico: “far luce sugli abusi sessuali commessi su minori e persone vulnerabili” a partire dall’anno 1950; “studiare la maniera con la quale questi affari sono stati trattati, tenendo conto del contesto delle epoche interessate”; “valutare le misure prese dalla Cef come pure dalla Corref a partire dagli anni 2000 per fare tutte le raccomandazioni ritenute utili”.

La commissione ha riferito l’esito dei suoi lavori in un alluvionale rapporto, pubblicato nei primi giorni del corrente mese di ottobre e reperibile, nella sua interezza, su internet. Da esso risulta – ed è il dato enfaticamente ed acriticamente messo in luce da quasi tutti i mezzi di informazione, ivi compresi quelli di (sedicente) ispirazione cattolica – che il numero complessivo di minori vittime di aggressioni sessuali ad opera di sacerdoti, diaconi, religiosi o religiose nell’arco di tempo preso in considerazione sarebbe stato di 216mila, così determinato sulla base di una “stima” effettuata dall’Inserm-Institut national de la santè et de la recherche médicale, all’esito di una indagine condotta, su incarico della stessa commissione, su un campione di 28.010 persone.

A fronte di tali risultanze, va anzitutto osservato che, trattandosi, come si è appena detto, di una “stima”, ci si sarebbe dovuti chiedere (ma ben pochi lo hanno fatto) se ed in quale misura essa fosse da ritenere attendibile. E la risposta avrebbe potuto essere una soltanto: quella, cioè, che la (ipoteticamente) ritenuta attendibilità della stima, allo stato attuale delle conoscenze, potrebbe riposare unicamente su di un puro e semplice atto di fede, dal momento che invano si cercherebbe, leggendo e rileggendo le 485 pagine del rapporto, più 19 allegati, un’adeguata illustrazione dei metodi con i quali è stata condotta l’indagine e dei criteri sulla base dei quali si è giunti alla formulazione del risultato finale. Vi è poi da dire che risulta generalmente passato sotto silenzio, da parte degli organi di informazione, il fatto che, comunque, secondo lo stesso rapporto, i responsabili degli abusi in questione sarebbero stati non più del 3 per cento dei circa 115mila sacerdoti e religiosi operanti in Francia tra il 1950 e il 2020; il che significa, se la matematica non è un’opinione, che ciascuno di essi, a conti fatti, avrebbe dovuto sottoporre ad abusi, in media, non meno di 60 persone; cosa, questa, che appare, all’evidenza, difficilmente credibile. Del tutto ignorato, inoltre, risulta anche il fatto che, sempre secondo quanto risulta dal rapporto, delle decine di migliaia di presunte vittime di abusi sessuali ad opera di sacerdoti o religiosi che, statisticamente (presa per buona la stima di cui si è detto), dovrebbero essere ancora in vita, soltanto 6.471 avrebbero risposto all’ “appello alla testimonianza” pubblicamente diffuso dalla commissione. Il che appare tanto più significativo in quanto si consideri che la chiesa di Francia aveva già resa nota la sua disponibilità a corrispondere adeguati risarcimenti a quanti fosse risultato che avessero subito gli abusi in questione.

E tutto ciò senza considerare che, comunque, quelle che sono state acquisite sono soltanto dichiarazioni accusatorie, più o meno dettagliate, rese al di fuori di ogni e qualsiasi carattere di ufficialità e delle quali, per quanto è dato sapere, non risulta in alcun modo verificato ed accertato l’oggettivo fondamento; cosa che, d’altra parte, in molti casi, a causa del tempo trascorso, sarebbe stata e resterebbe alquanto difficile, se non addirittura impossibile. Volendo dare un’idea di quale possa essere, verisimilmente, il rapporto tra casi denunciati e casi accertati, appare utile ricordare che , secondo un rapporto pubblicato nell’anno 2004 da un autorevole e indipendente organismo scientifico degli Stati Uniti, quale il John Jay College of Criminal Justice della City University of New York, su 1021 casi segnalati alla polizia di abusi sessuali ad opera di appartenenti al clero cattolico in un arco di tempo compreso tra il 1950 ed il 2002 (rispetto ai circa 6.700 ritenuti originariamente “credibili”), solo 384 avrebbero dato luogo a processi nei confronti dei presunti responsabili e di costoro solo 252 sarebbero stati riconosciuti colpevoli e condannati. Ciò è quanto si apprende dalla voce di Wikipedia “Casi di pedofilia all’interno della chiesa cattolica”, il cui orientamento, come è facile constatare dalla lettura integrale del testo, appare, in generale, tutt’altro che pregiudizialmente favorevole alla Chiesa.

Il rapporto della commissione Sauvè, però, oltre a contenere i dati numerici di cui si è detto, si caratterizza anche per una serie di spericolate e provocatorie incursioni che, con il pretesto di voler rispondere all’invito di “fare tutte le raccomandazioni ritenute utili”, investono taluni dei principi fondamentali sui quali si basa l’assetto istituzionale e disciplinare della Chiesa cattolica; il che appare tanto più singolare in quanto si consideri che autore di siffatte invasioni di campo è un organo i cui componenti sono, per la massima parte, come si attesta nel rapporto medesimo, “credenti di diverse religioni, agnostici o atei”.

Tra le suddette “raccomandazioni” possono segnalarsi, ad esempio: quella di rimettere in discussione, per combattere il “clericalismo” (cui si vorrebbe far risalire la causa ultima degli abusi), la costituzione gerarchica della Chiesa cattolica, in dichiarata contrapposizione alla sua immutabile validità, quale ritenuta (e lo si ricorda anche da parte della commissione), in una pronuncia della Congregazione per il clero adottata ancora sotto il pontificato di Benedetto XVI nel febbraio del 2015; quella di modificare il diritto penale canonico nel senso che, quando si tratti di abusi sessuali in danno di minori o altri soggetti vulnerabili, debba venire in primo piano la finalità di tutela delle vittime e non quella dell’emenda del colpevole, dimenticando che tutto il diritto canonico è, per sua natura e per espressa affermazione del legislatore, finalizzato alla salvaguardia del bene supremo costituito dalla salvezza delle anime (“Salus animarum”), per cui l’emenda del colpevole, comunque conseguita o conseguibile, non può che assumere rilievo prioritario rispetto alle pur legittime aspettative risarcitorie delle persone eventualmente offese dal peccato, la cui soddisfazione, d’altra parte, quando il peccato sia anche un illecito civile o penale (come è nel caso, appunto, degli abusi sessuali), rientra fra i compiti precipui della giustizia statale e non di quella ecclesiale. Ma la più temeraria ed eclatante fra le “raccomandazioni” appare quella con la quale si propone, senza mezzi termini, che l’obbligo di conservare il più assoluto segreto su tutto quanto appreso in confessione, al quale da sempre sono tenuti, sotto pena di scomunica, tutti i sacerdoti cattolici, dovrebbe essere oggetto di deroga in favore di quello “previsto dal codice penale e conforme, secondo la commissione, all’obbligo di diritto divino naturale di protezione della vita e della dignità della persona, di segnalare alle autorità giudiziarie ed amministrative i casi di violenze sessuali inflitte ad un minore o ad una persona vulnerabile”.

A fronte di una tale enormità sarebbe forse stato legittimo aspettarsi una reazione un po’ più forte e decisa di quella espressa, in particolare, nell’intervista pubblicata su Avvenire del 9 ottobre 2021, dal presidente della Conferenza episcopale francese, monsignor Eric De Moulins-Beaufort. Questi, invitato ad esprimere il suo pensiero sull’argomento, si è limitato a dire che “su questo punto occorre una particolare disponibilità di tutti al dialogo” e che dovrà quindi essere “spiegato” (non si specifica, però, a chi) “il valore del segreto della confessione” (pur osservando che esso “non è mai stato messo in discussione dallo Stato francese”), come pure il fatto che “rispettare questo segreto significa rispettare pure la dignità della coscienza di ciascuno” e che, peraltro, la Conferenza episcopale francese “non rappresenta la totalità della Chiesa”, anche se – aggiunge – “rispondiamo tutti al diritto canonico”; affermazioni, queste ultime, che appaiono, in verità, alquanto sibilline.

Alla ulteriore domanda, poi, se questa posizione sarebbe stata mantenuta anche nel previsto colloquio con il ministro dell’Interno francese, l’intervistato ha risposto che questa sarebbe stata “un’occasione per ribadire che il segreto della confessione non è un modo per aggirare le leggi” e che esso “può anzi rappresentare una prima occasione offerta anche alle vittime per liberare la loro parola”. Comprensibili possono essere le ragioni di opportunità che hanno presumibilmente suggerito una tale prudenza, da ritenersi, d’altra parte, soltanto verbale, non potendosi certo nutrire dubbio alcuno che, nella sostanza, monsignor De Moulins-Beaufort e, con lui, tutti i vescovi di Francia, siano fermamente decisi a difendere fino in fondo l’assoluta inderogabilità del segreto della confessione. Ci si potrebbe chiedere, tuttavia, se quelle ragioni sarebbero apprezzate da un san Giovanni Nepomuceno, il quale, vissuto nel XIV secolo, fu elevato all’onore degli altari perché, essendosi puramente e semplicemente rifiutato (senza ricorrere, per quanto se ne sa, ad argomentazioni di sorta), di accondiscendere alle insistenti richieste di Venceslao, re di Boemia, di rivelargli quanto la moglie, da lui sospettata di infedeltà, gli aveva detto in confessione, pagò questo rifiuto con la vita, avendo il re ordinato che, per punizione, fosse gettato, mani e piedi legati, nel fiume Moldava. Ma erano altri tempi. Se fosse vissuto oggi il re Venceslao avrebbe presumibilmente cercato di raggiungere il suo scopo senza ricorrere a minacce di morte ma promuovendo, per il tramite, se possibile, del vescovo locale, l’istituzione di un’apposita commissione che “raccomandasse” all’ostinato Nepomuceno di considerare come prevalente, rispetto all’obbligo di osservare il segreto della confessione, quello di obbedire alla legittima autorità del sovrano.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 19 ottobre 2021 alle ore 17:42