Dal Tribunale di Palermo un segnale concreto per dare un futuro a chi esce dal carcere

È importante l’iniziativa del presidente del Tribunale di Palermo Antonio Balsamo di riattivare il Consiglio di aiuto sociale, per dare una prospettiva di vita dignitosa a chi termina l’espiazione della pena. Come previsto dall’ordinamento, andrebbe estesa a ogni circondario. Maria, 58 anni, è originaria di Roma. Ha un fine pena di 7 mesi, ma il volto velato dalla tristezza e dalla paura. Il reparto femminile dell’istituto penitenziario di Lecce, dove, al termine di un incomprensibile girovagare tra istituti penitenziari, sta finendo di scontare la sua pena di 5 anni e 6 mesi, è ormai la sua famiglia: fuori di lì non ha più nessuno, non ha più un lavoro e, soprattutto, non ha una casa. Le chiedo come ha fatto concretamente a beneficiare dei permessi premio e mi racconta dell’ospitalità fornitale talvolta da una nota comunità fondata da un sacerdote e talaltra da istituti vicini alla Comunità nuovi orizzonti di Chiara Amirante. In questi anni ha riconosciuto i suoi errori, ha avviato un percorso di conversione alla fede, ha partecipato al massimo delle sue possibilità all’attività trattamentale proposta dall’istituto penitenziario e dagli enti collaterali di supporto ma quando sarà definitivamente libera, come e dove proseguirà la sua vita?

Matteo invece ha 29 anni. Ultimo figlio di un condannato al 41bis è stato coinvolto giovanissimo dai fratelli e dagli zii nella guerra tra batterie rivali della “società”, la mafia foggiana, e nel reparto alta sicurezza del carcere di Lecce sta scontando una lunga pena detentiva entrata nel suo ultimo anno. Con la sola eccezione della mamma, da dieci anni non ha contatto con alcuno dei suoi familiari, vuoi perché gli stessi nel frattempo sono finiti dietro le sbarre o hanno avviato percorsi di collaborazione (come ha fatto una zia), vuoi perché non ha potuto usufruire di benefici carcerari. Da quando, però, due anni fa, la sua mamma è mancata, ed avvicinandosi (relativamente) il suo fine pena, Matteo ha cominciato a mettere in discussione anche i suoi legami familiari; ha cominciato a immaginare il suo futuro in libertà, a chiedersi dove e come provare ad avere una vita diversa. Ma è un percorso tutt’altro che semplice. Il rischio che Matteo tra un anno venga riassorbito dal circuito criminale è elevato, e non si contiene certo solo con la libertà vigilata.

Maria e Matteo sono ovviamente nomi di fantasia ma le loro storie sono reali, e sono sovrapponibili a quelle di tanti liberandi. Come spesso accade, nel nostro ordinamento le norme per affrontare queste situazioni ci sono ma nessuno le applica, al punto che gli istituti da esse previsti finiscono per essere del tutto ignoti. Tanto, almeno fino all’insediamento del nuovo Presidente del Tribunale di Palermo, Antonio Balsamo. Tra i primi gesti del magistrato, con importanti esperienze in Cassazione e internazionali, vi è stata l’attivazione e il ripristino della funzionalità del Consiglio di Aiuto sociale presso il Tribunale di Palermo, (ri)entrato in funzione il 4 ottobre scorso, primo e unico in Italia. Si tratta di un istituto completamente inapplicato e dimenticato della legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 (articolo 74-77), confermato dall’articolo 119 del Dpr. n. 230/2000, che si occupa del reinserimento sociale dei detenuti e che dovrebbe essere costituito (e operante) nel capoluogo di ciascun circondario.

L’articolo 74 dispone che “nel capoluogo di ciascun circondario è costituito un consiglio di aiuto sociale” formato da magistrati (sorveglianza e minorenni compresi), rappresentanti delle istituzioni (prefettura, enti locali, ufficio provinciale del lavoro, Asl), direttori degli istituti penitenziari del circondario, un delegato del Vescovo, e sei componenti nominati dal presidente del tribunale fra i designati da enti pubblici e privati che si occupano di volontariato e assistenza sociale. L’articolo 75 elenca le attività e i compiti del Consiglio. Esso deve visitare i liberandi, al fine di favorire, con opportuni consigli e aiuti, il loro reinserimento nella vita sociale; accertare i loro reali bisogni e studiare il modo di provvedervi secondo attitudini e condizioni familiari; studiare le possibilità di collocamento lavorativo e svolgere “opera diretta ad assicurare una occupazione ai liberati che abbiano o stabiliscano residenza nel circondario stesso” (articolo 75 n. 3) attraverso il “Comitato per l’occupazione degli assistiti dal consiglio di aiuto sociale” di cui all’articolo 77, composto anche da rappresentanti dell’industria, del commercio, dell’agricoltura, dell’artigianato locale, delle organizzazioni datoriali e sindacali; organizzare corsi di formazione professionale e promuovere la frequenza agli stessi dei liberandi; curare il mantenimento delle relazioni dei detenuti con le loro famiglie; segnalare alle autorità e agli enti competenti i bisogni delle famiglie dei detenuti che rendono necessari speciali interventi; svolgere una funzione di raccordo tra tutti i soggetti coinvolti, pubblici e privati, per assicurare il più efficace e appropriato intervento in favore dei liberati e dei familiari dei detenuti.

L’articolo 76 disciplina le attività del Consiglio di aiuto sociale per il soccorso e l’assistenza alle vittime del delitto, stabilendo che “il consiglio di aiuto sociale presta soccorso, con la concessione di sussidi in natura o in denaro, alle vittime del delitto e provvede all’assistenza in favore dei minorenni orfani a causa del delitto”. Dunque, il nostro ordinamento prevede una realtà che risponde a bisogni concreti, assiste chi ha sbagliato con un’azione collettiva e con la necessaria logica “di rete” per immaginare alternative rispetto alle forme di occupazione illecita che invece sono facilissime da trovare, soprattutto in quei contesti. È intuitivo come la sicurezza di una comunità passi non solo dalla “rieducazione” del detenuto ma anche dal suo reinserimento, che completa e mette in sicurezza la prima evitando che venga vanificata. Eppure la costruzione e la funzionalità di una rete alternativa alle pericolosissime forme di welfare mafioso all’evidenza non è tra le priorità del Paese. La meritoria iniziativa del presidente Balsamo, se da una parte mette in luce una gravissima mancanza, dall’altra rappresenta un segno di speranza e un incentivo affinché, come prevede la legge, in tutti i Tribunali si attivino e siano operativi i Consigli di aiuto sociale. Rendere la pena anche un fattore di promozione di umana pare un obiettivo allo stato irrealizzabile, ma la traccia indicata dal Tribunale di Palermo va nella direzione di restituire dignità e alimentare la speranza come possibilità per tutti, compresi gli autori dei fatti più terribili, di un autentico riscatto, per il bene di ciascuno di loro e quello della collettività.

(*) Tratto dal Centro Studi Rosario Livatino

Aggiornato il 29 ottobre 2021 alle ore 17:11