Se Anas e Trenitalia sono chiamati a decidere che cosa viola l’identità di genere

Lo scorso 5 novembre il Senato ha approvato il disegno di conversione del Dl 121/2021 in tema di infrastrutture, già precedentemente approvato alla Camera, con cui è stato introdotto una sorta di Ddl Zan in scala. All’interno dell’articolo 23 di un testo che è formalmente vocato a disciplinare la circolazione stradale sono state inserite una serie di norme. E, dopo il comma 4, sono stati inseriti i seguenti:

“4-bis. È vietata sulle strade e sui veicoli qualsiasi forma di pubblicità il cui contenuto proponga messaggi sessisti o violenti o stereotipi di genere offensivi o messaggi lesivi del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili e politici, del credo religioso o dell’appartenenza etnica oppure discriminatori con riferimento all’orientamento sessuale, all’identità di genere o alle abilità fisiche e psichiche.

4-ter. Con decreto dell’autorità di Governo delegata per le pari opportunità, di concerto con il ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili e con il ministro della Giustizia, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, sono stabilite le modalità di attuazione delle disposizioni del comma 4-bis.

4-quater. L’osservanza delle disposizioni del comma 4-bis è condizione per il rilascio dell’autorizzazione di cui al comma 4; in caso di violazione, l’autorizzazione rilasciata è immediatamente revocata”. Questa disciplina inserisce per la prima volta nel nostro ordinamento categorie come quelle di “orientamento sessuale” e di “identità di genere”, contestabili in linea di principio poiché non rispondenti a evidenze scientifiche o antropologiche, senza una precisa definizione legale, sì che la loro indeterminatezza infrange il principio di legalità richiesto dalla Costituzione affinché le norme punitive siano legittime. Soprattutto si tratta di categorie il cui ingresso in un testo di legge era stato fermato dallo stesso Senato pochi giorni prima, quando aveva votato il non passaggio all’esame degli articoli del Ddl Zan.

È da segnalare che i contrasti sul contenuto dell’articolato, da cui era derivato il voto contrario, avevano riguardato nello specifico, fra gli altri, proprio quell’articolo 1 che nel Ddl Zan definiva sesso, orientamento sessuale, genere e identità di genere: poiché dal voto sul non passaggio all’esame per regolamento devono decorrere non meno di sei mesi per la riproposizione di un testo analogo, si è realizzata una non lieve forzatura regolamentare. Si aggiunga che il decreto infrastrutture ha come promotore il Governo, che ha pure chiesto al Senato il voto di fiducia: quello stesso Governo che durante l’intero iter del Ddl Zan aveva manifestato la propria neutralità e si era tenuto fuori dalla contesa. A che cosa si devono questo ‘recupero’ e questa imposizione?

Quanto al merito, le nuove disposizioni sanzionano la libertà pubblicitaria non in base alla sua rispondenza alla continenza espressiva e alle norme dell’ordinamento disciplinanti la libertà di pensiero, ma in base all’opzione etica che essa rivela, con un grave ed evidente sacrificio di quella libertà di espressione che la Costituzione riconosce e tutela espressamente. A titolo esemplificativo, si consideri che con le suddette norme l’immagine di una mamma che accudisce il proprio bambino all’interno di un messaggio pubblicitario potrebbe essere ritenuta uno stereotipo di genere così da impedirne la rappresentazione.

Non essendo fornita una precisa definizione della fattispecie che si intende sanzionare, la norma si espone a una troppo estesa esegesi, consegnata alla discrezionalità dell’interprete, che in questo caso nemmeno corrisponde all’autorità giudiziaria, bensì all’ente proprietario della strada ai sensi del comma 4 dell’articolo 23 dello stesso Codice della Strada: si rischia una arbitrarietà assoluta nel giudizio di ciò che andrà considerato illecito.

È un divieto di carattere ideologico, poiché non precisa in cosa debba materialmente consistere la condotta vietata a causa della vaghezza di formule quali “messaggi sessisti”, “messaggi lesivi delle libertà individuali”, nonché perfino dei diritti civili e politici. Non si comprende, inoltre, l’ente proprietario della strada quali criteri possa e debba seguire per giudicare se un messaggio pubblicitario costituisca una violazione, per esempio, dei cosiddetti “stereotipi di genere”, in assenza di una precisa definizione di che cosa debba intendersi per stereotipi di genere.

L’Anas o le Ferrovie dello Stato, o anche una Comune o una Provincia – per la viabilità di rispettiva competenza – potrebbero sancire l’illiceità di un messaggio pubblicitario sulla base di concetti non definiti né dal punto di vista strettamente giuridico, né da qualsiasi altro punto di vista, come quello scientifico e antropologico, e, ancor più incredibilmente, a stabilire cosa siano gli stereotipi di genere.

Può realmente l’ente gestore della strada divenire l’esercente di una esplicita censura in base a criteri legali così incerti, e da concedere e revocare l’autorizzazione all’inserzione di messaggi pubblicitari? Dipende dall’Anas stabilire quali siano le dimensioni della sessualità umana? O da Trenitalia sancire quali siano i messaggi lesivi del rispetto delle libertà individuali, e dei diritti civili e politici?

Il tenore letterale delle norme approvate segnala il rientro dalla finestra – in versione minor – di ciò di cui si era vietato l’accesso per la porta principale. Il tentativo – sebbene riuscito – non è meno giuridicamente maldestro della sua versione maior, con in più la già segnalata perdita di neutralità del Governo in materia. È singolare l’incoerenza di un Esecutivo che si è risolto a sostenere ciò cui in precedenza aveva negato il sostegno, e di quei senatori che dapprima hanno fermato il Ddl Zan e poi hanno votato, col Ddl Infrastrutture, la norma in questione, che ne riprende i capisaldi.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 10 novembre 2021 alle ore 10:42