Ricominciamo dal Servizio sanitario nazionale

Sembra un adattamento del celebre “Ricomincio da tre”, di Massimo Troisi, dove le istrioniche figure del pasticciaccio della sanità italiana hanno interpretato crisi di identità, una voglia di cambiamento senza obiettivi chiaramente definiti, tipica dei provincialotti, frustrazioni, adulteri e, verso la fine dell’ultimo tempo, lo stupore per una creatura di cui nessuno può rivendicare con orgoglio la paternità.

Ma potrebbe sembrare una grottesca replica di “Un americano a Roma”, mi si perdoni questo secondo riferimento a un altro film dissacratore dell’Italietta, messa in scena dopo la caduta della cosiddetta Prima Repubblica, quando alcuni pagliacci giocando a fare i politici hanno smontato quel fiore all’occhiello che fu il Servizio sanitario nazionale, istituito con la legge numero 833 del 1978, la più grande conquista sociale del XX secolo, che aveva introdotto almeno tre principi necessari: la generalità del trattamento sanitario; la globalità delle prestazioni (prevenzione, cura e riabilitazione); l’uguaglianza di trattamento.

La riforma del Titolo V della Costituzione ha generato un ulteriore deterioramento di sistema, delegando la gestione a una pluralità di centri decisionali, avendo affidato alla legislazione concorrente tra Stato e Regioni la tutela della salute, in una sorta di federalismo, che andava tanto di moda in quegli anni, peccato si trattasse di un tragico ossimoro, un federalismo invertito, ovvero di una scissione di poteri di uno stato sovrano e non della unione di autonomie che mettevano in comune organismi e risorse. Quella riforma ha instaurato ventuno sistemi sanitari locali assai diversi tra loro, con diverse prestazioni sanitarie, una sorta di anacronistico ritorno agli Stati preunitari, in dispregio dell’articolo 3 della Costituzione, che garantirebbe la parità di trattamento dei cittadini, e dell’articolo 32, che definisce la salute un interesse collettivo.

Negli anni di quelle riforme si andava realizzando il miglismo, dal famoso ideologo che portò alla Lega Nord quei due o tre contenuti da grancassa celodurista che gli permisero di avere un significativo successo negli anni del disfacimento della Repubblica italiana sotto i colpi di Tangentopoli. Nei successivi circa venticinque anni tutti i governi hanno distratto fondi dalla sanità, ottenendo un solo tipo di crescita, quello delle liste di attesa, che insieme a ticket piuttosto salati ha naturalmente spinto i pazienti tra le braccia delle strutture private. Quelle riforme neoliberiste e thatcheriane, fortemente ispirate al dimagrimento dello Stato, hanno generato una vera e propria esplosione primaverile di servizi sanitari privati, o per meglio dire che si definiscono privati con una smisurata ipocrisia, mentre la maggior parte di loro vive saldamente attaccato al capezzolo delle convenzioni pubbliche, e anzi senza di esse non rimarrebbe nel mercato nemmeno un giorno. Nel 2018 la diagnostica privata (convenzionata) ha registrato un costo di circa 4,8 miliardi, la metà di quanto destinato al settore pubblico.

Mentre i partiti politici giocano allo smantellamento progressivo i sindacati, pingui sacerdoti ormai senza fede di una chiesa in declino, fanno voti al demone che dovrebbero affrontare, ogni tanto producono un grottesco e spesso monotono comunicatino stampa o indicono qua e là un irrilevante stato di agitazione, mostrando ogni giorno di più la loro inutilità. Perché non c’erano quando bisognava opporsi alla regionalizzazione della sanità pubblica, in taluni casi salutando addirittura come una benedizione la famigerata e scellerata riforma del Titolo V della Costituzione, perché non hanno fatto barricate contro il modello lombardo, dove la Lega ha tagliato la spesa da 255 a circa 77 milioni nel triennio 2017 – 2019 e la sanità privata ha dimostrato una smisurata propensione per la mammella pubblica; ricordo i poco edificanti casi del celeste Roberto Formigoni e di alcuni esponenti leghisti coinvolti in indagini.

Non sono pregiudizialmente contrario alla sanità privata, tuttavia l’iniziativa privata per definizione non vive alle spalle dell’economia pubblica, si autofinanzia, ad esempio con le polizze assicurative, offrendo semmai ai cittadini la possibilità di una scelta alternativa. Queste realtà possono operare come vere imprese, poi vedremo chi è in grado di fornire il servizio migliore. Ma ricordo in proposito che molte delle cliniche finto private che ho avuto modo di visitare in Italia non dispongono nemmeno della rianimazione, che tanto la fornisce l’ospedale pubblico più vicino, se il paziente in caso di bisogno ci arriva vivo. Così come ricordo con quale velocità alcuni centri diagnostici privati hanno chiuso i battenti nel 2020 appena dichiarato lo stato di emergenza, mentre tutte le strutture pubbliche onoravano la missione e la professione, a rischio della vita, a volte richiamando in servizio anche personale in pensione.

Tuttavia, pur non essendo contrario all’iniziativa privata in genere, anzi ritenendola un fondamentale elemento di sviluppo, considero l’insegnamento di Platone sulla necessità di saper distinguere tra proprietà pubblica e privata così come tra funzione pubblica e privata. Il rimedio è ammettere l’errore e ricominciare dal Servizio sanitario nazionale. Agli inevitabili detrattori che piangeranno la scarsità di finanze potremo segnalare che nelle emergenze, di fronte a una priorità, come si fa in famiglia, le risorse si possono e si devono spostare dalle funzioni non indispensabili, o inutili, destinandole alle essenziali, come ci ha purtroppo ricordato l’emergenza pandemica. Così come abbiamo discutibilmente scelto di risparmiare due spiccioli, tagliando qualche seggio parlamentare, missione fondamentale del programma della loggia massonica P2 e della New public management theory, potremmo fare economia di cifre ben più grandi rinviando a tempi migliori la costruzione di qualche portaerei, delle quali sinceramente non si comprende la necessità, specialmente in un paese la cui Costituzione “… rifiuta la guerra come mezzo per dirimere le controversie”, oppure eliminando tutta una serie di cappellani militari, che costano al Paese tra stipendi, pensioni e accessori circa venti milioni di euro l’anno, cappellani ospedalieri, circa 35 milioni l’anno, e insegnanti di religione, costo oltre un miliardo di euro l’anno, per funzioni che in quanto sacerdoti potrebbero svolgere per vocazione.

Ricominciare dal Servizio sanitario nazionale e dagli investimenti necessari è ormai una priorità, come è stato bene evidenziato nel Regolamento Ue numero 241/2021 al punto 15 delle considerazioni introduttive, anche perché proprio la pandemia dimostra chiaramente l’insufficienza e inadeguatezza dell’attuale assetto del Sistema sanitario, con una fortissima penalizzazione delle prestazioni ordinarie, riduzione delle attività diagnostiche e chirurgiche anche per le malattie oncologiche, che non possono permettersi dilazioni temporali perché sono tempo dipendenti.

Tutti dovremmo passare un po’ di tempo negli ospedali, possibilmente non come pazienti, per comprenderne l’importanza.

(*) Direttore del Centro studi “Franco Maria Malfatti” - Terni

 

Aggiornato il 08 febbraio 2022 alle ore 11:19