La nuova giustizia tributaria/2: la prova testimoniale, scritta e orale

sabato 1 ottobre 2022


La legge 21 agosto 2022 n. 130 ha eliminato il divieto di prova testimoniale nel processo tributario e definito i termini di ammissibilità di essa, riscrivendo il testo dell’articolo 7 comma 4 del Decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546. E però, pochi giorni dopo l’entrata in vigore della novella, già si registrano interpretazioni contrastanti sulla reale portata della nuova disposizione. È il seguito della riflessione avviata su questo sito lo scorso 20 settembre.

Con la legge 21 agosto 2022 n. 130 il legislatore è intervenuto con una riforma sul testo del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 545, recante disposizioni in materia di giustizia tributaria, e sul testo del Decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546, contenente la disciplina del processo tributario. Nella materia processuale una delle disposizioni di maggior interesse, in vigore dal 16 settembre 2022, è l’articolo 4 comma 3 lettera c) della legge in commento, mediante il quale viene novellato l’articolo 7 comma 4 del Decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546, ovverosia la norma processuale che disciplina i poteri delle commissioni tributarie, ora ribattezzate corti di giustizia tributaria. Il testo previgente della disposizione menzionata stabiliva che nel processo tributario “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”, in ossequio a quella concezione per cui tale processo avrebbe natura sostanzialmente documentale, secondo una impostazione che lascia trasparire una certa diffidenza verso la prova testimoniale, radicata nell’assunto per cui il testimone avrebbe maggiormente a cuore le sorti del privato rispetto all’interesse erariale.

La sostanziale assenza di prove costituende ha peraltro consentito al sistema processuale tributario di caratterizzarsi per una particolare velocità, in aperta controtendenza con le altre giurisdizioni, che da sempre soffrono del morbo atavico dell’irragionevole durata. D’altro canto però alla speditezza di processi tributari – di solito il primo grado si esaurisce entro un anno dalla proposizione del ricorso introduttivo, e un altro anno è necessario per l’appello – ha spesso fatto da contraltare la non particolare qualità della media delle sentenze rese dai giudici tributari di merito, confermata dall’elevato numero di ricorsi in Cassazione, peraltro favorito anche dal fatto che una delle parti in causa dispone gratuitamente dei servizi legali ed è quindi incentivata a ricorrere contro ogni tipo di decisione a sé sfavorevole, così moltiplicando il numero dei ricorsi pendenti davanti alla sezione tributaria della Cassazione.

Inoltre, l’approccio formalistico legato a un’istruttoria quasi esclusivamente documentale ha in molti casi giustificato le doglianze dei contribuenti che lamentavano il sacrificio delle regole del giusto processo (enunciate in Costituzione e nelle fonti sovranazionali) sull’altare dell’interesse erariale. Tali rimostranze sono state alimentate nel tempo dal progressivo consolidarsi nella materia processual-tributaria di uno schema impugnatorio per cui, salvo il caso dei ricorsi contro il silenzio rifiuto in materia di rimborsi, attore in senso formale è il contribuente che impugna l’atto impositivo, ma attore in senso sostanziale è l’amministrazione finanziaria, come tale onerata di fornire nel giudizio la prova delle circostanze di fatto che sostengono le contestazioni di maggior imponibile, le riprese a tassazione di minori costi, e via dicendo. Questo schema teorico di fondo in punto di onere della prova è stato tuttavia alterato nel corso degli anni dal sempre maggiore ricorso da parte dell’amministrazione finanziaria allo strumento delle presunzioni, previste in maniera massiccia nella normativa di riferimento, ad esempio nel Dpr. 29 settembre 1973 n. 600, contenente disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi.

Ne consegue il ribaltamento dei carichi probatori, col contribuente onerato di offrire al giudice la prova contraria rispetto a quanto contestato dalla parte pubblica nell’avviso di accertamento per effetto del massivo utilizzo di presunzioni semplici o, addirittura, semplicissime. In questo contesto il divieto della prova testimoniale costituiva una limitazione di non poco conto per l’attività difensiva del contribuente, difficilmente conciliabile anche con la previsione di cui all’articolo 2729 comma 2, Codice civile, secondo il quale “le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni”. Va peraltro dato conto del fatto che “la giurisprudenza ha avuto occasione di precisare che contro la limitazione probatoria in esame non si può invocare neppure la irragionevole disparità di trattamento rispetto al giudizio civile. L’inesistenza di un principio costituzionalmente garantito di necessaria uniformità delle regole tra i diversi tipi di processo può condurre ad una differenziazione degli ordinamenti processuali secondo le scelte operate dal legislatore che rientrano nella sua discrezionalità in quanto non manifestamente arbitrarie (in argomento Corte costituzionale 12 gennaio 2000, n. 18)”.

Altro dato rilevante è che secondo la giurisprudenza l’esclusione della prova testimoniale non comporta l’inutilizzabilità delle dichiarazioni dei terzi riprodotte nei processi verbali della Guardia di Finanza o dell’amministrazione finanziaria, anche se non rese in contraddittorio con il contribuente. Le dichiarazioni di terzi entrano quindi nel processo tributario, ma in maniera asimmetrica, in concreto sempre a supporto della pretesa dell’ente impositore. Queste dichiarazioni rese dai terzi anche non in contraddittorio con il contribuente – inserite nel processo verbale di constatazione e recepite nell’avviso di accertamento – hanno valore meramente indiziario e possono assurgere a fonte di prova presuntiva, concorrendo a formare il convincimento del giudice. Per questo la Corte di Cassazione si è preoccupata di riequilibrare almeno in parte i rapporti tra ente impositore e contribuente “affermando che, nel processo tributario, il potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale – con il valore probatorio proprio degli elementi indiziari – va riconosciuto non solo all’amministrazione finanziaria, ma anche al contribuente, dovendosi dare attuazione ai principi del giusto processo, come riformulati nel nuovo testo dell’articolo 111 Costituzione, e garantire il principio della parità delle armi processuali nonché l’effettività del diritto di difesa”. Si è così giunti ad ammettere la produzione da parte del contribuente di dichiarazioni rese da terzi nella forma dell’atto notorio, con il medesimo valore indiziario attribuito alle dichiarazioni rese in sede extraprocessuale e raccolte nel processo verbale di costatazione e nell’avviso di accertamento.

Di fatto, tuttavia, la giurisprudenza risulta particolarmente restia nel valutare le dichiarazioni di terzi presentate dai contribuenti a sostegno delle proprie difese. La Legge 21 agosto 2022 n. 130 riscrive il testo dell’articolo 7 comma 4 del Decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546, che – per effetto della novella – oggi stabilisce quanto segue: “Non è ammesso il giuramento. La corte di giustizia tributaria, ove lo ritenga necessario ai fini della decisione e anche senza l’accordo delle parti, può ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all’articolo 257-bis del Codice di procedura civile. Nei casi in cui la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso, la prova è ammessa soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale”.

Il Dossier elaborato dai Servizi Studi di Camera e Senato e pubblicato lo scorso 6 agosto 2022 commenta la norma come segue: “La lettera c) del comma 1, nel confermare l’inammissibilità del giuramento, consente l’assunzione della testimonianza in sede processuale quando la Corte di giustizia tributaria di primo grado lo ritenga necessario ai fini della decisione anche in mancanza di accordo tra le parti. La prova testimoniale deve essere assunta nelle forme della testimonianza scritta, di cui all’articolo 257-bis del Codice di procedura civile”.

A una prima lettura sembrerebbe che la prova testimoniale sia ora ammessa nel processo tributario, con due specifiche limitazioni: una sostanziale, dovendo il giudice ritenere la testimonianza necessaria ai fini del decidere (almeno potenzialmente, visto che si tratta di una valutazione che il giudice deve condurre ex ante); l’altra formale, essendo ammessa solo nella forma scritta ex articolo 257-bis Codice di procedura civile, anche in assenza dell’accordo tra le parti. Sarebbe proprio questa la principale innovazione rispetto alla prova scritta prevista nel processo civile, e in concreto rarissimamente utilizzata, proprio perché subordinata al necessario accordo delle parti sul punto. La mancata previsione di tale limite dovrebbe rendere lo strumento molto più fruibile nella sede processuale tributaria.

Secondo tale interpretazione si tratterebbe in ogni caso di un intervento legislativo minimale, tale da consentire l’introduzione nel processo tributario di una dichiarazione scritta che – in quanto resa nelle forme dell’articolo 257-bis Codice procedura civile – avrebbe valore probatorio e non semplicemente indiziario, senza con ciò alterare la struttura del processo disciplinato nel decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546, e presumibilmente senza minarne la comprovata celerità. Tuttavia, e in attesa di registrare i primi interventi giurisprudenziali su una norma processuale che è già in vigore dallo scorso 16 settembre 2022, l’esegesi ora prospettata sembra non essere l’unica possibile; al contrario, vi è chi in dottrina, muovendo dall’autonomia lessicale del primo periodo del nuovo articolo 7 comma 4 (ove è scomparso l’espresso divieto di prova testimoniale), ritiene che la novella abbia reso ammissibile nel processo tributario non solo la prova testimoniale scritta ma anche quella orale. Ciò per effetto della riespansione delle regole generali contenute nel Codice di procedura civile all’articolo 244 e successivi.

Come noto, infatti, i giudici tributari “applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del Codice di procedura civile” (articolo 1 comma 2 decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546) e il Codice di procedura civile consente l’assunzione della prova testimoniale sia nella forma orale (generale) che scritta (nel solo caso di accordo delle parti sul punto). Secondo tale esegesi, il citato primo periodo del nuovo articolo 7 comma 4 godrebbe di sostanziale autonomia; conseguentemente, il successivo secondo periodo non conterrebbe i limiti generali entro i quali è ammessa la prova testimoniale nel processo tributario, ma più semplicemente i limiti entro i quali in detto processo è ammessa la testimonianza scritta (diversi da quelli stabiliti per il Processo civile dall’articolo 257-bis Codice procedura civile), senza tuttavia intaccare la generale ammissibilità della prova testimoniale orale, in conseguenza del venir meno dell’espresso divieto in precedenza contenuto nel previgente testo della norma novellata e del generale rinvio alle norme del codice di procedura civile, di cui al richiamato articolo 1 comma 2 del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546.

Secondo questa interpretazione, la nuova prova testimoniale – sia essa scritta o orale – sconterebbe poi in ogni caso il limite di cui al terzo periodo dell’articolo 7 comma 4 (“Nei casi in cui la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso, la prova è ammessa soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale”). Un’esegesi di questo tipo, pur autorizzata dal dato testuale, avrebbe evidentemente effetti dirompenti sul sistema processuale tributario. Potrebbe incidere, è vero, sulla durata del processo, i cui tempi si allungherebbero inevitabilmente per la necessità di assumente la prova orale; definirebbe, però, un sistema processuale sicuramente più garantista per il contribuente, cui sarebbe attribuita – almeno in alcune tipologie di contenziosi – un’importante arma di difesa, da utilizzare nell’interesse proprio, ma più in generale nell’interesse collettivo alla “giusta imposizione”. Va peraltro tenuto presente che tale interpretazione sembra andare oltre l’intenzione espressa del legislatore, di cui comunque si deve ancora una volta evidenziare il ricorso a una tecnica di redazione del testo di legge non particolarmente brillante per chiarezza e immediatezza di comprensione.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

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di Angelo Salvi (*)