Dossier carceri per Meloni, Nordio e Sisto

giovedì 3 novembre 2022


È il momento che la premier Giorgia Meloni, il ministro Carlo Nordio e il viceministro Francesco Paolo Sisto, mostrino con i fatti, “acta non verba”, come cita pure il brocardo di una delle maggiori organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria, la massima attenzione verso il mondo penitenziario, sia sul versante del personale, demotivato da anni di devastante abbandono, che su quello delle condizioni dei detenuti, e un tanto non per bontà d’animo, per quanto non costituisca un peccato, ma per fare proprio “sicurezza”. Le carceri, infatti, rischiano di trasformarsi in una sorta di cluster-bomb sociale, con conseguenze imprevedibili, ora che gli imbonitori politici di sempre hanno levato le tende, lasciando però sul campo le più fedeli vedette, indifferenti ai principi del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione.

Può bastare una piccola scintilla, infatti, per riaccendere, e questa volta per davvero, le micce di antiche e legittime rivendicazioni, giocando ancora una volta sulla memoria corta degli italiani, oggi distratti dalle bollette elettriche e del gas, invece che dalla richiesta di soccorso che proviene dal profondo delle nostre carceri, all’interno delle quali, in una straordinaria rivisitazione del principio uguaglianza, si fanno soffrire, insieme, prigionieri e custodi, nel nome della inevitabile copresenza. Si riparla, tra l’altro, dell’ennesimo piano-carceri; noi che studiamo anche il mondo penitenziario ne abbiamo perso il conto, mentre le nostre prigioni sembrano quelle di sempre: disorganizzate, assolutamente irrispettose delle condizioni di vita e di lavoro degli stessi operatori penitenziari, criminogene e fortemente punitive verso quelli che, impiegando l’insidioso linguaggio politically correct, vengono appellati come “utenti”: persone costrette a vivere nei caravanserragli della giustizia, luoghi di regola poco funzionali ma, nel contempo, buco nero per il pubblico erario.

La cosa grottesca è che potrebbero essere chiamati come soccorritori proprio quanti siano stati i protagonisti di questo sfacelo; quanti si sono distinti per le proposte di soluzioni spesso estrose, ispirandosi semmai alle carceri spagnole, oppure a quelle brasiliane, ovvero a quelle norvegesi, o anche, sotto sotto, a quelle di una “sana” e robusta educazione siberiana, se non all’ulteriore concorrente di tipo cinese, ipotizzando in ogni caso la necessita di grandi nuove carceri e arrivando, persino, a proporre la conversione dei tradizionali antichi corridoi, all’interno delle sezioni detentive, in moderni decumani, dove i detenuti, come in Via del Corso a Roma, o in Via Toledo a Napoli, o in Via dell’Indipendenza a Bologna, avrebbero potuto trascorrere le loro ore libere passeggiando, una volta lasciate le “stanze di pernottamento”; insomma, novelli turisti del booking penitenziario; così come hanno suggerito di realizzare strutture di legno, doverosamente ecocompatibili, sotto le quali i detenuti avrebbero trovato riparo dall’arsura del sole d’estate e dal cattivo tempo d’inverno.

Forse, così, nessuno avrebbe contestato eventuali errori di progettazione per l’assenza di idonee coperture presso le aree aperte dei passeggi: i cosiddetti “cortili”, per quanto ciò fosse previsto dalle norme penitenziarie (articolo16, n. 4 del Regolamento di esecuzione della legge penitenziaria). Si proponevano perfino dei modelli, tipo case-famiglia, dimentichi che i nuclei familiari o meno (ivi compresi quelli malavitosi) si formano, normalmente, per scelta dei componenti o nascita, non certo per decisione amministrativa; nel frattempo, però, il sistema carcerario italiano ha continuato ad essere fuori controllo (vedasi l’allarmante numero di persone detenute suicide, così come quello delle aggressioni subite dagli stessi poliziotti penitenziari, così come le liti tra detenuti e, in taluni casi, ipotizzando pure la commissione di reati ben più gravi fino all’omicidio), con una impennata di evasioni, talvolta eclatanti, o con il verificarsi di storie opache, ancora sub iudice, ove si ipotizzano gravi condotte da parte degli stessi operatori penitenziari, come nella vicenda di Santa Maria Capua Vetere).

Se, però, ci fosse per davvero uno spirito riformatore e rispettoso della legalità, quella che si tocca con il dito, come il San Tommaso di Caravaggio, consiglio ai nuovi governanti di essere radicali e di buttare al macero tutti i vecchi copioni, diffidando da subito verso quanti, assiepati da sempre in uffici prestigiosi, non hanno mai risolto alcunché, scrivendo però diffusamente sul vuoto cosmico penitenziario. Per verificarlo, i nostri, si rechino senza alcun preavviso a visitare le carceri, possibilmente di notte, o nelle giornate festive e prefestive, quelle nel corso delle quali perfino i maggiori responsabili delle strutture usufruiscono della settimana corta, lasciando il timone del comando ai soldati di sempre, mentre le pene continuano a rimanere lunghe. Così vedranno lo squallore dei luoghi, il dolore dei visi, la tensione dei nervi, lo spegnimento delle speranze, la promiscuità che sorride beffarda.

Diffidino dei “Santoni” del mattone ad ogni costo, si insospettiscano verso quanti vogliano cancellare l’esistenza degli istituti malmessi, per farne dei nuovi e, in tal modo, distruggere la prova provata di decine di anni di malgoverno e di cattiva programmazione, rifacendosi così la verginità forse mai posseduta; abbiano i nuovi conductores tale civico coraggio! Scoprano l’anatocismo delle pene e delle prigioni, mentre i servizi più semplici verso la persona all’interno delle stesse continuano a mancare. Negli ultimi anni, in molti istituti, è stato violato ogni principio di proporzioni tra cubature detentive e spazi aperti, stuprate le poche aree verdi ancora disponibili, cassate le superfici libere, che ben avrebbero potuto essere impiegate per realizzare centri di formazione professionale per i detenuti, aule scolastiche, fattorie, laboratori artigiani, luoghi di culto, locali attrezzati per le attività trattamentali in genere, preferendosi, invece, realizzare ulteriori padiglioni penitenziari e così trascurando le conseguenze di un accresciuto carico antropico sulle strutture, sui servizi e sottoservizi, con continue problematiche per le reti fognarie, gli impianti elettrici, le centrali termiche, già stressate e sull’orlo del collasso; scopriranno così che da anni, in tante realtà, non venivano puntualmente eseguite le periodiche manutenzioni ordinarie, preferendo che anche il più modesto graffio si trasformasse in una ferita profonda e deturpante, necessitando poi della sala operatoria, per poi dichiarare come l’intervento fosse perfettamente riuscito, ma il paziente, perché poco collaborativo, invece morto.

Le vecchie carceri, tra l’altro, se soltanto si intervistassero gli stessi operatori penitenziari ed i detenuti, risulterebbero spesso, e di gran lunga, non solo più vivibili rispetto a quelle più recenti, perché, di regola, le prime realizzate in una visione armonica con le città ed il territorio, ma anche più sicure dal rischio di evasioni, mentre le nuove, pure a motivo delle logiche costruttive e della qualità dei materiali impiegati, rimangono, spesso, un punto di domanda: per conoscerne le criticità, occorre che trascorra del tempo e che vi transitino generazioni di detenuti e sorveglianti. Quello che tutti, però, lamenteranno sarà il peso dell’insopportabile carico umano detentivo, non corrispondente a quello che i pure abili architetti di un tempo avevano semmai considerato, non appartenendo ad essi il principio del cosiddetto “sovraffollamento penitenziario”. Termine moderno, adottato nel linguaggio della burocrazia penitenziaria allorquando non un affollamento dei detenuti all’interno delle carceri si constati, ma qualcosa di ancora più grande e devastante, il sovraffollamento per l’appunto, il cui riproporsi ha trasformato il lemma in una espressione assolutamente “ordinaria”.

Certo che occorrerebbero delle nuove carceri, perché gonfiandosi a dismisura il catalogo delle pene, nonché imperando la convinzione che quella detentiva sia la risposta più efficace alla risoluzione di ogni più complessa problematica sociale, il numero degli incarcerati, rectius, degli “utenti”, è cresciuto esponenzialmente. Ma se si intenderanno effettivamente edificare nuovi istituti, oltre che doverosamente riqualificare quelli già esistenti, almeno un principio dovrà essere rispettato per assicurare carceri civili ed umane: che a ogni detenuto corrisponda una ed una sola cella. Cella, parola che ai più delicati “penitenziaristi” fa senso, per quanto comprensibile da chiunque, preferendosi l’ipocrita fictio di “stanza detentiva” o, ancora più irridente, di “stanza di pernottamento”, in attesa di quella “dell’amore”. Oggi, in verità, noi costringiamo a disumane sofferenze ogni persona detenuta, a prescindere dalla sua eventuale innocenza; obblighiamo i rei o i presunti tali a vivere coattivamente gli uni con gli altri, per ogni frazione di tempo della loro carcerazione, stipandoli in ambienti collettivi che, frequentemente, appaiono insalubri ed angusti.

L’assenza di adeguati e banali servizi igienici (doccia nella camera, bidet, lavabo, e in locale distinto da quello dove si dorma) sono quasi sempre la regola; in quegli ambienti, già malsani di loro, consentiamo che si possano perfino manipolare i cibi e cucinare, non avendo destinato nemmeno un modesto angolo attrezzato al riguardo. Non assicuriamo neanche la dotazione di un piccolo frigorifero per conservare i cibi deteriorabili, minando così sia la salute dei ristretti che quella degli altri operatori, ove sorgessero casi di patologie infettive di origine alimentare; ditemi, per favore, è questa la “sicurezza” che offriamo alla collettività libera? La nostra organizzazione carceraria, tra l’altro, è così lungimirante ed attenta che, immancabilmente, ogni anno, si pone d’estate il problema del caldo e d’inverno quello del freddo da fronteggiare. Per il primo, la soluzione tipo pare che ormai sia quella di piatire, rivolgendosi alle Caritas ed alle altre organizzazioni di volontariato, oppure alle fondazioni bancarie e agli enti locali, dei ventilatori portatili: Vergogna!

Spesso le dimensioni delle finestre delle celle, ridotte a causa di sbarre e reti metalliche che ne sottraggono la luce, sono di un’ampiezza che non consente il naturale ricircolo dell’aria e una illuminazione non artificiale del locale, con tutto ciò che ne deriva in termini di clima e salute. Però nelle celle si fuma a gogò, ed è difficile che il detenuto mingherlino redarguisca quello grande e grosso perché smetta, immediatamente, di impestare il piccolo ambiente con il suo fumo; il motivo ve lo lascio indovinare, e poi un puzzo in più oppure in meno lascia indifferenti, seppure con il fumo passivo ci si ammali. Alla gerarchia delle fonti giuridiche si oppone quella, alternativa, dei regolamenti non scritti delle stanze detenute collettive: il detenuto che ha in mano lo scettro del telecomando televisivo, titillandolo a suo piacimento, esibisce la propria regalità criminale, gli altri devono accettarlo.

Capirete, allora, come in un contesto così banalmente descritto, con quale capacità di concentrazione un detenuto possa attendere e prepararsi in prossimità di una udienza, come possa impegnarsi nella lettura degli atti giudiziari, già difficili da interpretare quando si sia perfettamente rilassati, mentre attorno a lui si scontrano il vocio arrabbiato dei compagni che giocano a carte, i suoni delle radioline che trasmettono musica rap o quella dei neomelodici, o radio-carcere, la quale ripete la litania dell’amnistia o dell’indulto, oppure trovarsi ricostretti a sentire i racconti delle prime dosi di eroina o delle ultime rapine di alcuni coinquilini; nel frattempo, però, c’è chi spazza con una consunta ramazza la stanza perché è il suo turno, chiedendo agli occupanti di spostarsi ad un altro angolo della suite, per non intralciare il lavoro di pulizia, e semmai, in quei frangenti, accedono anche gli agenti per la cosiddetta “battitura dei ferri”, cioè il controllo delle sbarre d’acciaio delle finestre, percuotendole con una piccola mazza metallica al fine di riscontrare eventuali tagli sulle stesse.

Per pietas, saltiamo il tema dell’hard violento che si può subire e dell’insopprimibile bisogno di eros; i curiosi, se lo vorranno, potranno attingere dalle cronache anche recentissime. Sono quelli che descrivo, brevemente, i luoghi dove si vivrà, sfiorandosi, con persone molte volte sconosciute, di cui non si condividono lingue, religioni, culture, storie. E poi ci si meraviglia dei suicidi; quanti ad oggi, 71, 72 o di più? Per tanto, se davvero si vuole fare un salto di civiltà agita, sarà necessario immaginare non solo delle carceri che, come da articolo 5, 1° capoverso, della legge penitenziaria del 1975, dovranno essere realizzate “in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati”, ma dovrà procedersi, con una puntuale e trasparente pianificazione degli interventi, ad una riqualificazione progressiva anche di quelle più datate. È una partita grossa, enorme, ma non più rinviabile.

Dopotutto i privati trasformano i vecchi manieri in lussuosi alberghi a 5 e più stelle, per cui sarà certamente possibile, per la migliore architettura e la più capace ingegneristica italiana, trasformare le più modeste carceri in strutture ricettive salubri e, soprattutto, sicure. In fondo si chiedono carceri dotate di celle singole, possibilmente con una superfice per stanza non inferiore a 9 metri quadri, che abbiano un angolo cottura e un austero bagno completo dei necessari servizi, tenendo in debito conto che lo spazio per sedersi sul water e sul bidet, o la distanza tra il lavabo e la parete, andranno calcolate tenendo a mente le dimensioni medie della corporatura fisica di una persona adulta che pesi almeno 85 chili, nonché prevedendo pure delle stanze dove possano essere ospitati i detenuti obesi i quali, ad oggi, in molti istituti avrebbero perfino difficoltà ad accedere in un bagno e che, in caso di malore, risulterà finanche faticoso trascinarle, a peso morto per davvero, fuori da quegli angusti locali.

Dubito che al ministero, che perse la “Grazia” ma conservò la “Giustizia”, abbiano detto le cose che provo a declinare al nuovo Guardasigilli Nordio ed al suo viceministro Sisto, pure perché essi, giustamente, replicherebbero: “Ma perché allora le avete realizzate così?”, creando un comprensibile imbarazzo e un curioso silenzio da parte dei migliori progettisti del dicastero e di quello delle infrastrutture. È evidente che, ove solo si procedesse come suggerisco, diversi istituti risulterebbero temporaneamente inadeguati, o meglio, andrebbero svuotati, il che imporrebbe altre ulteriori decisioni, quelle sì per davvero politiche e coraggiose. In tal modo, però, si avrebbe un più ragionevole quadro dei bisogni spaziali che oggi è, praticamente, falsato e si potrebbe programmare cosa davvero fare, nell’arco almeno dei prossimi 5-10 anni d’adesso, prima che sia troppo tardi per tutti. Così come dovrebbero prevedersi dei punti telefonici, uno in ogni stanza detentiva ad uso esclusivo dei ristretti.

La telefonia andrà assicurata (cosa che in parte già avviene) impiegando delle schede telefoniche a pagamento e con tagli che vadano da un minimo di 5 euro ad almeno 50 e loro multipli, ovviamente a spese degli stessi detenuti. Le schede magnetiche, dotate di pin, dovranno essere utilizzate soltanto dai legittimi proprietari e, allo stesso tempo, andrà tolto ogni limite al numero di chiamate, modificando l’attuale norma, articolo 39 del Regolamento e successivi, che risale, al tempo in cui nessuno di noi sapeva cosa fosse uno smartphone. Le telefonate autorizzate non uccidono, non fanno evadere, sono indifferenti al sistema della sicurezza, pure perché, se altre e illecite fossero le intenzioni del detenuto, poco ragionevole sarebbe che impieghi la telefonia sottoposta a controlli; la scheda gli consentirà di chiamare esclusivamente quei numeri telefonici preventivamente individuati e autorizzati dalle competenti autorità giudiziarie e/o amministrative; in tal modo, si eviteranno pericolose processioni all’interno dei reparti detentivi di detenuti che si rechino a telefonare presso i pochi punti telefonici attualmente presenti, talvolta neanche scortati dagli agenti perché quest’ultimi insufficienti come organico.

Così si ridurranno i rischi per la sicurezza, attualmente accresciuti e spesso denunciati dalle stesse organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria. Un detenuto (uguale ragionamento vale per le detenute), prima di uscire dalla cella, dovrebbe essere sempre perquisito, nonché accompagnato o indirizzato fino alla cabina telefonica (quando c’è); se occupata, dovrà però attendere il suo turno. Immaginate quindi quali rischi e cosa possa accadere in caso di telefonate ritenute urgenti, oppure allorquando si chieda la precedenza o si intenda riprovare a chiamare, soprattutto se si tratti di detenuti stranieri, i cui fusi orari dei Paesi di provenienza rendano più difficili le comunicazioni, perché semmai a quell’ora in quelle realtà è piena notte o sono le prime ore del mattino, talché contattare un familiare, un avvocato, un amico, diventa cosa estremamente complessa se non improbabile, aumentando stress e tensioni tra detenuti e gli stessi agenti.

Com’è noto, sono presenti sul mercato mondiale, accreditate dai governi e dagli apparati securitari, delle società specializzate che operano esclusivamente nello specifico segmento della telefonia all’interno delle carceri, le quali sarebbero ben felici di avviare, anche in Italia, una qualche sperimentazione, pure facendosi carico degli oneri d’installazione, purché siano poi invitate a partecipare ad eventuali procedure d’appalto di telefonia fissa all’interno delle carceri italiane.

Le apparecchiature fisse all’interno delle stanze detentive potrebbero disporre anche di un schermo touch (come avviene in altri Paesi), e attraverso la interoperabilità dei sistemi si potrebbe consentire di effettuare degli acquisti di beni consentiti sul mercato on line controllato, sempre nel rispetto dell’ammontare di spesa già previsto per ogni detenuto, così come di formulare e trasmettere quella corrispondenza già consentita in ambito carcerario, quali quella riferita alle richieste di udienze con gli operatori penitenziari o con il magistrato di sorveglianza, oppure quelle di consulti e visite specialistiche sanitarie a proprie spese o presso i servizi pubblici, oppure per la partecipazione ad attività trattamentali, religiose, nel rispetto, ovviamente, delle regole contemplate ed eliminando le cosiddette “domandine”.

Si consentirebbe, così, di alleggerire di molto il lavoro attuale, soprattutto quello della polizia penitenziaria, meglio impegnandola nella sicurezza, con il pregio di conservare traccia di ogni richiesta e procedura. Come noto, i dati informatici possono essere più facilmente archiviati e controllati quando occorra. Insomma, le nuove tecnologie possono aiutare a meglio governare le strutture penitenziarie ed a sorvegliare, attraverso l’esercizio di un soft-power, la popolazione detenuta, ma di questo parleremo in un’altra sessione, immaginando anche l’utilizzo dei droni per la vigilanza, piuttosto che vederli impiegati esclusivamente dai criminali. Nel frattempo, però, sarebbe già un serio traguardo se fossero assicurati efficienti sistemi antincendio e la loro puntuale manutenzione, perché ne va di mezzo l’incolumità dei detenuti e del personale penitenziario. Questo è solo un primo assaggio del dossier carceri, che trova su l’Opinione, quotidiano liberale e libertario, uno spazio di attenzione. Sono temi che davvero occorrerà, finalmente, affrontare, se si vuole fare sicurezza nella legalità, nei fatti e non a chiacchiere.

(*) Penitenziarista, presidente dell’Osservatorio internazionale sulla legalità (Aps) di Trieste


di Enrico Sbriglia (*)