Dossier Carceri: il peggio del peggio

Mentre leggo gustosissime circolari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e di quello della Giustizia Minorile e di Comunità, dell’ottobre e del novembre scorso – in tema di “iniziative per l’innovazione del sistema penitenziario italiano” e in materia di “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa, e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari; Prime indicazioni operative” – cerco di immaginare gli sguardi degli attoniti operatori penitenziari, sia di quelli che ancora sono in ostaggio nelle carceri italiane (perché non sono ancora riusciti a trovare una via di fuga verso lidi di lavoro più tranquilli), sia di coloro che sono impiegati negli uffici dell’esecuzione penale esterna, dove un personale esausto, in attesa che giungano tra un anno, o forse più, “i rinforzi”, al termine di concorsi banditi e corsi di formazione ancora da farsi e/o completarsi, esala ormai le ultime forze.

Su questa umanità composita ma sostanzialmente “unitaria” di lavoratori, perché comunità che vive ed opera nello stesso mondo dell’esecuzione penale, infatti, ricadrà ancora una volta il vuoto progettuale con il quale i mandarini – grand commis de l’état – vorrebbero vendere ombrelli fatti di carta, ovviamente straccia.

Le circolari in questione, per chi non mi credesse, sono rinvenibili su internet e non costituiscono segreto di Stato: per favore, leggetele!

Sembra infatti di vivere in un mondo fantastico, dove tutto fila liscio come l’olio, anzi, scorre come il nodo del cappio, visto il numero impressionante dei suicidi che si contano nelle carceri italiane: quanti ne saranno ad oggi, 70, 80 o più e semmai si dirà che è colpa di un governo appena insediato?

Ancora una volta, invito sommessamente la premier Meloni ed il ministro Nordio ad essere attenti, cauti, di non farsi abbindolare dal valore magico delle parole, ma al contrario, ove fossero davvero curiosi, doverosamente curiosi, di leggere gli atti in premessa con la lente d’ingrandimento, parola per parola, frase dopo frase, e con il rigore morale di cui dispongono.

Scopriranno così pezzi di verità di cui lo Stato italiano dovrebbe, ahimè, vergognarsi.

È l’ennesima certificazione dell’anno sottozero.

“Il mi(ni)stero buffo” è che in tema di “innovazione del sistema penitenziario” quanto si invita a fare (ovviamente, per farlo apparire più credibile, fissando perfino dei termini: tassativi? Indicativi? Di attese speranze? Non è dato capirlo.) è frutto del lavoro di una apposita commissione, capite? È stato necessario costituire una commissione per avere utili “suggerimenti” al riguardo, quasi come se i tanti e afflitti operatori penitenziari fossero delle statue inanimate, come probabilmente vengono pure considerate le persone detenute (d’altronde, gli americani e non solo loro, chiamano i prigionieri “inmates”, come assomiglia questo termine ad “inanimati”).

Possibile che il fior fiore dei dirigenti che lavora in quella amministrazione dovesse ricorrere ad una commissione e non più semplicemente alla lettura dell’evidenze che, massicciamente, le direzioni degli istituti penitenziari segnalano da anni, ripeto da anni?

Che fine hanno fatto le tante lamentazioni, i continui invii di proposte, ormai avvizzite, delle numerose sigle sindacali che da anni denunciano, inascoltate, le condizioni di lavoro, estreme e spesso fuori legge, nelle quali opera la generalità di quanti non seggano i comodi scranni di uffici lontani dall’odore delle carceri, soprattutto d’estate?

C’era bisogno di speciali consulti per conoscere se nelle carceri vi siano spazi idonei per realizzare laboratori professionali, aule, oppure campi da gioco?

Forse che al Dap gli uffici tecnici, con i loro dirigenti, non conoscono queste cose e non hanno le planimetrie di tutti gli istituti i quali, per il vero, difficilmente si spostano di luogo e, che al contrario, sono sempre lì, immobili, incardinati sul territorio: quelli “antichi”, semmai, in belle e monumentali piazze, su vie importanti o in zone pregiate delle città, mentre i moderni (forse anche per nasconderli) in aree extra-urbane, semmai confinanti con i cimiteri oppure con i centri di raccolta dei rifiuti urbani, oppure con aziende di trasformazione di residui di macelleria e carcasse di animali, oppure accanto a parchi eolici, dove il sibilo delle pale accompagna, come il canto delle sirene, la vita quotidiana di detenuti e detenenti, dando vita, semmai, a delle correnti che consentono di meglio gustare gli odori della marcescenza delle immondizie, quando, come nella terra dei fuochi, non siano illecitamente bruciate? Davvero c’era bisogno di redigere “nuove mappature”?

C’era bisogno di speciali consulti per accorgersi che, ad esempio, fornendo di frigoriferi le stanze detentive, si sarebbe in parte alleviata la condizione delle persone detenute e, nel contempo, evitato di spendere follie di euro per il consumo di acqua impiegata per raffrescare le misere pietanze che vengono messe negli stessi lavabi dove ci si lava e sbarba, sotto il filo costante di un’acqua preziosa non soltanto per bere ma anche per evitare che il cibo degradi rapidamente?

C’era bisogno di ricordare, piuttosto che sanzionare, quelle condotte amministrative di quanti, in dispregio delle regole, omettono di comunicare formalmente, con atto certo e notificato, l’esito di procedimenti disciplinari agli stessi detenuti incolpati, così favorendo ulteriori reazioni e tensioni? È questa la situazione alla quale siamo giunti, in punto di diritto, nel ministero non del gioco e dello scherzo, ma in quello della “Giustizia”?

C’era bisogno di ricordare che la norma, il richiamato articolo 29 della Legge penitenziaria, e non il buon cuore, impone che i detenuti e gli internati siano posti in grado d’informare immediatamente i congiunti e le altre persone da essi eventualmente indicate del loro ingresso in un istituto penitenziario o dell’avvenuto trasferimento?

Ma davvero al Dap non sanno se gli istituti penitenziari abbiano o meno degli spazi trattamentali e se ve ne siano di adibiti o meno a teatri, oppure a sale ricreative, o anche ad aule scolastiche o di formazione professionale, e se gli stessi siano o meno dotati di quanto occorra per svolgere le pertinenti attività? Davvero è necessario fare, semmai, l’ennesimo censimento?

Basta, per favore, smettiamola di disegnare scenari che sono scemari!

Sono presenti in tutti i provveditorati regionali e al apAP gli uffici tecnici, con ingegneri, architetti, tecnici edili: è possibile che ogni volta, semmai ad ogni cambio di governo o di ministro, si debba iniziare tutto daccapo per conoscere lo stato delle cose?

Per favore, si sia seri e si dica chiaramente al Guardasigilli che le carceri sono fuori legge, se non anche fuori controllo.

Si dica chiaramente che non vengono rispettate le “antichissime norme penitenziarie”, forse perché risalenti al 1975, se non talune anche prima.

E ci si scusi con tutti, soprattutto con i cittadini, indotti a pensare (anche grazie all’aiuto di qualche toga) che le carceri siano degli hotel con tante stelle, forse anche più di cinque!

Mentre in realtà, in alcuni istituti, probabilmente, anche mentre scrivo, manca ancora oggi, l’acqua corrente “potabile”, contrariamente a quanto, da circa mezzo secolo, prevedono le norme, e che al suo posto vengono somministrate bottiglie di acque minerali, con sommo gaudio dell’erario.

Cosa fare, allora? Dire semplicemente la verità e scrivere, per davvero, un piano “Marshall”, come pure affermai tanti anni fa, quando ero al vertice di un sindacato di categoria rappresentativo dei Direttori Penitenziari, predisponendo un programma serio e con la colonnina dei soldi disponibili accanto ad ogni individuato intervento.

Per prima cosa, inoltre, occorre mettere tutti gli istituti penitenziari in sicurezza, e non in senso poliziesco, ma in termini di sicurezza sul posto di lavoro per quanti, operatori penitenziari e detenuti lavoranti, siano impiegati negli stessi.

Solo pochi giorni fa, il Presidente Mattarella sferzava l’attenzione di tutti, ricordando come la sicurezza sul lavoro fosse “un banco di prova di civiltà”. Cos’altro c’è d’aggiungere?

Altro che “stanze dell’amore o dell’affettività”! E non perché siano da trascurare, no, ma perché ci sono, purtroppo, tante altre vere e proprie emergenze all’interno delle carceri che devono essere assolutamente affrontate.

Insomma, non si continui ad esibire dei finti “croissant” a chi ha bisogno di pane, anche duro, ma tutti i giorni, senza doversi rivolgere al “volontariato”.

Ma davvero sarà ancora necessario che siano le Ooss di Polizia Penitenziaria e quelle delle Funzioni Centrali (che centrali non sono, perché parliamo dei dipendenti amministrativi che così vengono “appellati” in quanto dipendono dai ministeri ed hanno un contratto non di diritto pubblico) a dover denunciare ciò che non va e non quanti, per competenze e stipendi, dovrebbero già conoscere tutto e di più?

Cito, solo per fare un esempio, la “2^ edizione” redatta dal Sappe, costituita dalla raccolta di documentazione sindacale relativa alle visite ai luoghi di lavoro negli istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna anno 2022: l’esito è devastante.

Se poi, invece, vogliamo anche parlare del rischio suicidario presente tra gli appartenenti al Corpo della Polizia Penitenziaria, potremmo richiamare quanto fu relazionato dalla Cgil alcuni anni fa, presso il Provveditorato Regionale del Triveneto che collaborò fattivamente alla ricerca.

Ma esempi analoghi di analisi e di denuncia si sono in verità sviluppati in ogni territorio e da parte di tutte le sigle (Sinappe, Fns-Cisl, Uilpa, Osapp, Fsi, etc.), nel mentre è continuato il valzer di dirigenti e di capi del Dap.

Insomma, se la situazione non fosse grave, quantomeno sarebbe ridicola.

Come uscirne, quindi?

Pianificando le cose e spiegando a tutti, con sincerità, che ci vorrà tempo ed una barca di soldi pubblici.

In ogni provveditorato regionale si prendano almeno due istituti “rovinati” e si immagini per essi una rigenerazione architettonica; poi vengano svuotati di detenuti e si dia inizio ai lavori, con modelli standard, con celle singole (e non stanze di pernottamento che sanno tanto di campeggio o di ostello), ognuna di non meno di nove metri quadrati e senza porre in essere delle misere furbizie adulterando le misure, si aggiunga poi un modesto bagno completo di doccia, bidet, lavabo e cesso, di misure minime sufficienti, prendendo come esempio quelli di un traghetto passeggeri, e avanti così, con metodo, senza fermarsi.

Si realizzino ampi locali per delle lavorazioni, fornite di prese di energia elettrica industriale, di bagni, docce e pavimenti che siano a norma, per evitare cadute ed infortuni; si accerti seriamente che le finestre siano idonee per il passaggio di luce e aria, che ci siano gli aspiratori di polveri e di quanto di pericoloso eventuali lavorazioni manifatturiere possano disperdere nell’aria: insomma, tutto ciò che occorra perché ci sia sicurezza, la sicurezza per i lavoratori; il fatto che siano anche detenuti o detenenti è appena un dettaglio, insignificante.

Si realizzino dei locali da destinare ai credi religiosi, semmai anche multiconfessionali, si recuperino spazi verdi, piantumando alberi e realizzando dei prati; fanno bene anche agli occhi degli operatori penitenziari: insomma si realizzino dei luoghi del vivere.

Certo, i detenuti con il loro numero potrebbero essere d’intralcio e non è certo consentito spingerli ad evadere, neanche attraverso i suicidi, ma qui dovrà giocare un ruolo l’intelligente politica: qui la politica dovrà mostrare il proprio “rigore” intellettuale.

E poi, ma su questo scriverò più avanti, come potranno gli Uffici di esecuzione penale esterna affrontare, con le forze di cui dispongono, quella che sarebbe la santa e civile attuazione della riforma Cartabia, la quale, ha l’italico vizietto di dirci cosa si debba mangiare, senza però farci vedere la dispensa dalla quale poter prelevare gli alimenti da portare a tavola?

In conclusione, almeno per ora, non occorrerà tanta fantasia per capire quali strumenti deflattivi si dovrebbero, nell’urgenza che è emergenza, adottare e se ci fosse ancora il folle, ma veggente, Marco Pannella ce lo direbbe urlandolo.

Se qualcuno del Governo leggerà queste mie “oscenità”, non avrà bisogno di alcun altro suggerimento, ma muoviamoci, presto, prima che accada il peggio del peggio: è una questione morale e reputazionale per lo Stato italiano.

Basta bugie, basta!

(*) Presidente onorario del Cesp (Centro Europeo di Studi Penitenziari) di Roma

Aggiornato il 29 novembre 2022 alle ore 11:56