Via i voti, l’ultima sfida della Cancel culture

Ricordate quando prendevamo a scuola “le stelline”? In fondo alla pagina, ordinata e ben scritta, svettava la bella calligrafia della maestra, il suo “benissimo” o “bene +++”, poi la fatidica stellina con le cinque punte d’oro. L’anticipo della “lode”, rara alle superiori e meta ambita all’università. Tutto ruotava intorno al voto: dal 2 per gli asini, al 4 per i capoccioni, al 5 per gli svogliati, poi dal 6 in su la scalata dei migliori. Il voto era il metro di misura dell’apprendimento, del talento, dell’applicazione, dell’impegno. Non parole e giri di pensieri, ma un secco 7, oppure un netto 8 o, peggio, la pioggia delle insufficienze con cui ci si doveva misurare.

Oggi questo schema, cioè la gragnuola dei voti, è quanto di più antipatico e indigesto alla generazione digitale, alle bamboccione col cervello vuoto come un pop corn e ai galletti bullisti, che farebbero di tutto per affogare nei criteri, nei concetti, nei giudizi, perché è sempre meglio che tornare a casa con una votazione che dice tutto in un segno unico, chiaro e inalienabile. Non sono tutti così i ragazzi e le ragazze, ma spesso ai più effimeri si aggiungono famiglie sgangherate, genitori privi di influenze, mamme ragazzine e padri superficiali, oltre agli stranieri pressati e incattiviti che al primo scoglio protestano pronti a ritirare i figli dallo studio.

La scuola italiana, nonostante le università siano in testa alle classifiche, ha subito uno tsunami. L’ultima trovata dell’epoca decadente è l’abolizione dei voti, a cui non mi stupirei se tra qualche tempo facesse seguito l’abolizione della scuola stessa per farne una sorta di “case aperte” stile Maneskin, in cui giovani “né zitti né buoni” si dedichino ai piaceri delle droghe e alla cultura TikTok. Per ora siamo ai voti, dopo altre semplificazioni e abolizioni per cui lo studio è diventato una gabbia di test come per gli esami della patente. Col risultato di giovani di cui la maggior parte non sa parlare, connettere, dialogare, criticare e soprattutto scrivere se non che pensierini elementari stile Sardine.

Ora l’attacco si è spostato ai voti. Una guerriglia antisistema che parte nel Sessantotto, quando i rivoluzionari degli scioperi e delle assemblee miravano al “sei politico”, ma ancora vigendo l’indottrinamento ideologico contro la cultura del Ventennio si respiravano Marx ed Engels, la filosofia e la letteratura. Negli ultimi anni, invece, è stata una slavina, col lockdown poi è crollato l’impianto scolastico, per cui è sempre più difficile per presidi e docenti salvare il salvabile.

“Abolire i voti sotto il 4 per evitare di umiliare gli studenti”. Non è uno scherzo. Lo ha proposto l’assessore provinciale in lingua tedesca dell’Alto Adige Philipp Achammer. “I voti non hanno alcun valore educativo e pedagogico”, ha dichiarato convinto. Una sperimentazione partita due anni fa al liceo Morgagni di Roma, che si è diffusa in sordina. Si segnalano in tutta Italia istituti che durante l’anno scavalcano il criterio numerico preferendo stabilire con gli alunni una dialettica basata sui giudizi. Addirittura siamo all’autovalutazione, cioè lo studente il giudizio se lo dà da solo. “Meno stress, il voto è divisivo, crea disuguaglianze”, affermano i sostenitori. Il pedagogista Cristiano Corsini, docente all’Università Roma Tre, è convintissimo dell’efficacia: “Esistono molte evidenze sperimentali che dimostrano come gli studenti imparino di più e meglio quando al posto dei voti vengono utilizzati strumenti di tipo descrittivo”.

Non tutti la pensano così. Il filosofo e docente universitario Paolo Ercolani lo ha definito nettamente “istupidimento di massa” e ha condannato la soluzione: “È il colpo di grazia alla formazione delle nuove generazioni mortificando il merito”. Uto Ughi, il massimo violinista italiano, recentemente ha definito il successo dei Maneskin “un insulto all’arte e alla cultura”, invitando i giovani ad ascoltare Vivaldi, a seguire i veri concerti e a non abdicare all’erudizione. L’artista ha spiegato che il suo non è moralismo: “Ogni genere ha diritto di esistere, ma quando si fa musica non si urla e basta. C’è una grave carenza nell’istruzione musicale con lacune spaventose nella preparazione, a parte le eccezioni di eccellenze”, ha voluto precisare lui, che si è avvicinato alla musica all’età di sei anni.

Quale missione per il nuovo ministro dell’Istruzione del governo di Giorgia Meloni? “Nella mia visione di scuola ciò che conta sono i giudizi contenuti nel portfolio che devono servire al ragazzo e alla famiglia per cogliere criticità, opportunità, potenzialità, raggiungimento di risultati, abilità”, si è barcamenato Giuseppe Valditara. “I voti servono come indicatori temporanei durante l’anno e possono essere declinati nella misura più utile allo studente e al docente. Una scuola positiva e amica considera il voto come semplice indicatore del livello raggiunto in quel momento”. “Attenzione però”, ha rimarcato il ministro, “a non far crescere i giovani nell’ovatta, bisogna abituarli a sopportare le frustrazioni che nella vita saranno tante, altrimenti facciamo il loro male”.

Bella scommessa per la destra alla prova del governo e dei tempi. Oggigiorno si ha paura della serietà e si scansa la fatica. Il peggior danno. Se Giorgia Meloni e la sua compagine non avranno il coraggio delle idee e la forza della ragione contro il politicamente corretto, la Cancel culture e il complessivo imbarbarimento mediatico e digitale falliranno la loro missione. Più che le economie e le leggi, questa è la sfida. Italia è cultura.

Aggiornato il 27 gennaio 2023 alle ore 12:34