Quando uno dice Måneskin c’è spesso una maestrina che corregge – Moneskìn! – aggiungendo che è una parola danese, mentre un professorino rivela il significato – chiaro di luna – e un non so chi ipotizza che sia norvegese, comunque con il pallino nordico sulla “a”. Tutto ciò potrebbe sembrare una semplice regressione infantile, ma se questo gruppo si fosse chiamato Albe o Tramonti non sarebbe decollato, facendo recitare il solito rosario ai post-anta: che vergogna questi qui.

Oggi è inutile cercare melodie, ritmetti svegli, nenie celestiali o almeno convincenti per consacrare un musicante. Comunicazione, social, hashtag fabbricano la notizia-non notizia che circola fulmineamente, facendo lievitare il prodotto, in questo caso la band, con la velocità dei cartoni animati. A questo punto conta solo il numero di like mentali, prima ancora di quelli social. E tutto diventa sottinteso, adorato anche a volume zero. Ovviamente, la ricetta prevede almeno una trisessualità (la bi è banale), ipotesi di intrecci variopinti all’interno del gruppo, litigi e gelosie di vecchio stampo, che però funzionano sempre.

Intoppo: The Atlantic, la più importante pubblicazione rock americana, li stronca, e sarebbe importante capire a quale generazione appartenga un giornalista Usa che se ne esce definendo i brani dei Måneskin riciclati, sfacciatamente mediocri, con i loro stereotipi su realtà e falsità, passione e prodotto. Chiusura scoppiettante: l’ascesa dei Måneskin dimostra come il rock possa esplodere nello stesso modo in cui possono farlo le melodie della Disney, basta un’esposizione televisiva memorabile. Ma Spencer Kornhaber, autore dell’articolo, con quella faccia da mai giovane con occhiali critici, ha colpito i quattro romani o chiunque eserciti oltre Atlantic-o? La prima ipotesi è più probabile e fa pensare che, forse, abbiamo esagerato con la nuova comunicazione, abusando di metodi importati senza istruzioni per l’uso. E che sparare in orbita richiede una navicella e un equipaggio decente.

Qualche giorno fa, i francescani del Seraphicum di Roma hanno proiettato Ennio, docu-fiction su Morricone. Musicista per volere paterno, schifato dal dover suonare la tromba per mangiare, rappresenta la svolta per tanti registi i cui film sono ricordati principalmente per le sue note, che sono protagoniste (e non commenti musicali), al punto che lo stesso concetto di colonna sonora, soprattutto grazie a lui, è assurto alla dignità di musica eterna. Una biografia di due ore e mezza, normalmente, fa pentire di essere usciti di casa, ma questo no. Perché racconta l’arte sublime di trovare in un barattolo, nell’acqua, persino nella sabbia i suoni perfetti per trasformare un film in una realtà che coinvolge tutti. E perché racconta un dio dei suoni mentre si diverte a minimizzare capolavori che fra due secoli lo allineeranno ai Beethoven.

Ci si sente in colpa per aver vissuto la sua arte, con fremiti ed emozioni, sapendo troppo poco della vita di questo genio, la cui musica è stata definita dal regista Alberto Negrin “sismografo dell’anima”. E a questo punto gli antisti hanno fin troppo materiale per esaltarsi. Non resistono al confronto pacchiano fra un immenso e il nulla-rock: per una volta si sentono in maggioranza intorno a un rogo giordanobrunesco.

Ma la conclusione è che siamo tutti in una trappola del tempo, incatenati a un turno generazionale. Dunque, costretti dalla natura a tifare per la propria epoca contro quelle precedenti e quelle successive. E a diffidare dei critici musicali agé, obbligati a fingere di apprezzare roba per loro incomprensibile. Credendosi comuni immortali.

Aggiornato il 02 febbraio 2023 alle ore 11:27