Bombe inesplose a qualche metro di profondità: sono circa 25mila

L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, costruita sopra decine di migliaia di bombe inesplose. Nello stivale sono circa 25mila gli ordigni sganciati dagli aerei, soprattutto della Royal Air Force e della United States Air Force, durante la Seconda guerra mondiale, tra il 1940 e il 1945. Molte di queste, esplosero parzialmente, a causa di difetti di costruzione o per le condizioni ambientali avverse. Sono tutt’ora armate, ma non pericolose finché restano sottosuolo. Queste bombe potrebbero provocare danni a persone, animali e cose qualora venissero mosse, toccate o maneggiate senza attenzione.

I primi a bombardare il suolo italico sono stati gli inglesi della Raf, nella notte tra l’11 e il 12 giugno 1940, a Genova. L’attacco ha seguito la dichiarazione di guerra di Benito Mussolini, contro la Francia e l’Inghilterra. L’ultimo, invece, è datato 4 maggio 1945, sulle colonne tedesche in ritirata dallo Stivale. I dati ufficiali delle forze alleate, che sono stati declassificati – ovvero, a cui è stato tolto il segreto di Stato – sull’Italia sono state sganciate 378.891 tonnellate di ordigni, pari al 13,7 per cento del totale sganciato sull’Europa. Circa un milione di bombe.

Anche il sud del Paese è stato, durante la Seconda guerra mondiale, vessato dai bombardamenti. Soprattutto, la preparazione per lo sbarco alleato in Sicilia e poi nel centro Italia ha portato con sé le “bombe preventive”, nella zona tra la linea Gustav e la linea Gotica, le due linee di difesa tedesche. La prima partiva dal confine tra Lazio e Campania, nella zona di Frosinone, e arrivava ad Ortona, a sud di Pescara, passando per Cassino. La Seconda, a nord, andava dal fiume Magra, tra La Spezia e Massa-Carrara, fino a Pesaro, sul Mar Adriatico. Tra il 1946 e il 1948, negli anni successivi alla fine della guerra, in quelle zone vennero effettuate numerose operazioni di bonifica. Molti ordigni però, ancora non hanno visto la luce del sole.

Ma il problema non riguarda solo le bombe. Sulle due linee di difesa tedesche sono state piazzate centinaia di migliaia di mine antiuomo. Lungo la Gustav, si trova la più alta concentrazione di esplosivi, nella zona tra Cassino e Anzio. Mentre, lungo la Linea Gotica, sono state posate almeno 100mila mine antiuomo. Poi, nella zona precisa dello sbarco degli alleati, su un perimetro di quaranta chilometri (circa) quadrati furono poste 200mila mine tra anticarro e antiuomo. “La bonifica avvenne subito dopo la guerra con i mezzi che si aveva a disposizione, spesso le cose vennero fatte con faciloneria”, dice Roberto Serio, il segretario generale dell’Associazione nazionale vittime di guerra. “Per esempio, le bombe trovate in prossimità delle zone portuali – continua l’uomo – vennero semplicemente gettate in mare. A volte i pescatori venivano pagati per portare gli ordigni al largo e buttarli in acqua”.

Quindi, il problema bombe inesplose riguarda anche il fondale marino, che è pieno di ordigni risalenti alla Seconda guerra mondiale. Nel 1999 una relazione dell’Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare affermava che nel basso Adriatico erano presenti circa 20mila residuati bellici a carica chimica. Nel porto di Bari, per esempio, il 2 dicembre 1943, un bombardamento tedesco affondò 20 navi alleate. Molte di queste imbarcazioni avevano la stiva piena di ordigni, cariche di varie sostanze chimiche. Inoltre, alla fine della guerra l’esercito americano abbandono nei mari italiani quantità mai specificate di armamenti, tra cui ordigni pericolosamente inquinanti contenenti fosgene, cloruro di cianuro e cianuro idrato.

In fin dei conti, non esiste un luogo in Italia dove si possa dire con certezza che non ci siano bombe inesplose. Agli ordigni aerei si aggiungono mine, granate e bombe a mano inesplose, senza dimenticare le munizioni di armi pesanti sepolte alle truppe naziste in ritirata, pur di non farle cadere in mano nemica. Addirittura, in alcune zone alpine si trovano ancora le bombe chimiche caricate con gas asfissianti della Prima guerra mondiale. Ad oggi, gli ordigni vengono trovati solitamente rinvenuti negli scavi in profondità delle metropolitane, nei campi delle industrie agricole e durante i lavori per porre le fondamenta di nuovi edifici. Secondo la Legge 177, del 1° ottobre 2012, la valutazione dei rischi da possibile rinvenimento di ordigni bellici inesplosi nei cantieri interessati da scavi è diventata obbligatoria. Ma è la valutazione a determinare se sia necessario di effettuare la “bonifica sistematica”.

Matteo Bassi, riconosciuto dal Ministero della Difesa come tecnico Bonifica campi minati (Bcm), spiega il processo nel dettaglio: “Vengo chiamato da aziende, amministratori, enti pubblici per fare valutazioni preventive di un determinato luogo. Significa che effettuo indagini storiche sui fatti bellici, valuto la vicinanza a quelli che durante la guerra erano obiettivi sensibili, analizzo il terreno e opero con un metal detector. Quindi fornisco a chi mi ha commissionato il lavoro una valutazione del rischio. In base alle risultanze verrà richiesta o meno una bonifica sistematica che verrà fatta poi dall’esercito”.

Le aziende dedite a questo tipo di lavoro, però, non possono in nessun caso rimuovere o maneggiare ordigni. Qui deve intervenire l’esercito, più precisamente il Genio militare. A effettuare la bonifica vera propria viene fatta dagli operatori Eod, Explosive Ordinance Disposal, addestrati nel Centro di Eccellenza C-Ied (Counter Improvised Explosives Devices) di Roma e dislocati in 12 reggimenti del Genio in tutta Italia.

La faccenda, naturalmente, si complica quando i ritrovamenti di queste bombe inesplose avvengono in città, o comunque in agglomerati urbani. Qualche esempio: a Brindisi nel dicembre del 2019 sono state evacuate oltre 50mila persone per disinnescare un ordigno trovato nei pressi di un cinema. Sempre nello stesso periodo, a Torino è stata messa in sicurezza una bomba rinvenuta durante gli scavi per realizzare il teleriscaldamento, tra via Nizza e via Valperga. Come in altri casi simili nelle città, la zona era stata divisa in zona rossa, con evacuazione obbligatoria, e zona gialla dove la gente aveva potuto rimanere in casa seguendo però istruzioni precise. Generalmente, il modus operandi prevede che l’ordigno venga fatto brillare all’interno di una buca, oppure entro delle strutture realizzate per svolgere la stessa funzione, ovvero contenere gli effetti della detonazione.

Aggiornato il 04 marzo 2023 alle ore 09:53