Fruiscimi questo

In questi giorni, a tempo perso, mi sto divertendo a leggere le varie, variate e variopinte attestazioni di partecipazione alle candidature locali in alcuni piccoli Comuni italiani, indifferentemente dalla collocazione politica e ideologica. Scorrendo i brevi – e non sempre tali – testi di “presentazione” dei vari candidati sui social, è impossibile non notare troppo spesso come, a una assoluta mancanza di originalità, si associ una scarsa conoscenza della lingua italiana, ridotta alla sterile ripetitività dei modi di dire, preconfezionati, trasmessi dai media. Insomma, se il “panorama” è sempre “mozzafiato”, alla fine quel modo di dire, un tempo avente una propria originalità, è diventato per suo stesso logoramento dovuto all’uso, stantio e inflazionato sino a non significare più niente.

E, in pochi altri momenti come quelli delle campagne elettorali, si assiste al florilegio continuo di luoghi comuni, di frasi fatte, di modi di dire obsoleti e pertanto non incisivi. Insomma, è l’apoteosi della fiera delle banalità, del nulla e della ripetitività ossessiva. Ogni tempo ha i propri “tormentoni” nei modi di dire e di scrivere. Chi ha la mia età ricorderà “nella misura in cui” e “a monte”, che insieme a tante altre frasi hanno caratterizzato gli anni Sessanta, Settanta e parte degli Ottanta. Non nego che anche all’epoca non esistessero frasi fatte e ripetitive: l’ignoranza e la banalità allignavano anche allora, soprattutto in politica, ma la cultura e la conoscenza dell’italico idioma erano indubbiamente superiori a quelle odierne.

A leggere certe dichiarazioni rilasciate da taluni onorevoli in Parlamento (luogo dove si dovrebbe parlare, appunto, in un buon italiano e senza trascendere in volgari contumelie), viene da rabbrividire e intristirsi non poco. Se questo succede nell’emiciclo di Montecitorio, figuriamoci in quale maniera tutto ciò si possa moltiplicare in progressione geometrica man mano che si discende l’erta china, raggiungendo i più piccoli centri. Sarebbe poi così semplice se ognuno parlasse secondo il proprio linguaggio, senza voler apparire più di quello che è, utilizzando parole di cui spesso non conosce il significato, riuscendo in una tragicomica e involontaria imitazione di Nino Frassica ai tempi eroici del buon Renzo Arbore. Loro facevano ridere, perché dietro quelle storpiature volute, quelle parole usate fuori contesto, dietro i loro sproloqui c’era una cultura e un’intelligenza che si divertiva a giocare e a prendere in giro proprio la banalità e la supponenza dell’uomo mediocre.

Invece ora, purtroppo, vedo soltanto seriosità e il presumere a oltranza di non aver bisogno di aiuto, né l’“umiltà” di conoscere i propri limiti. A volte verrebbe da chiedersi come siano stati conseguiti certi diplomi o, peggio, certe lauree. L’“analfabetismo di ritorno” è una piaga ben documentata nel nostro Paese, anche in ambito universitario. Più nello specifico, leggendo proprio alcuni “post” dei candidati alle prossime elezioni amministrative in programma tutta Italia, mi sono sempre più rafforzato nella mia personale e intima convinzione che vi siano parole e frasi che andrebbero abolite per la loro verbosa, banale, burosaurica inutilità da qualsiasi contesto.

Parole quali: “mettersi a disposizione”, “le conoscenze”, “le competenze”, “l’impegno”, “volto a”, “dialogo”, “narrazione”, “piuttosto che”, “compartecipazione”, “sinergie”, “sviluppo”, “fruire, fruizione e fruibilità”. O ancora: “opportunità”, “passione”, “dedizione”, “esigenze”, “valenza”, “riqualificare”. Per poi tacere delle “risorse umane”, modo questo di dire che rievoca i campi di coltivazione elettrici ottenuti dagli esseri umani in Matrix.

Senza dimenticare “l’esperienza maturata” neanche fosse un frutto tropicale, “ampio respiro” (avete mai visto qualcuno che vuole soffocare?), “forte e coesa”, altra scontata ovvietà che nega se stessa perché, se così fosse, nessuno si sentirebbe spinto ad affermarlo. E se non siete ancora paghi di tutto ciò, ci sono i sempreverdi e terrificanti “resilienza”, “efficientare” e “interfacciarsi”, trascurandone molti altri che la mia mente si rifiuta di ricordare.

L’italiano è una delle lingue più belle e difficili del mondo, possiede una vastità di termini ineguagliabile; conoscendolo, si può dire qualsiasi cosa, anche la più greve senza scadere nella volgarità. Invece, ci si ostina a usare vocaboli abusati nella loro vacuità… e se penso che alcuni tra costoro, sparsi lungo lo Stivale, andranno a governare qualche sperduto borgo tipo Roccatronca di sopra, c’è da auspicarsi che l’asteroide colpisca al più presto il Pianeta. Un’altra frase da abrogare sarebbe “metterci la faccia”: perché non usare “esporsi in prima persona”? Quale altra parte anatomica dovrebbe “metterci” altrimenti, l’eventuale candidato, se non la faccia? Vero è che in alcuni casi resta alquanto difficile distinguere il volto dai glutei, però con un minimo di accortezza ci si dovrebbe riuscire.

Chi li capisce è bravo, indubbiamente. E se qualcuno, tempo fa, ha inneggiato al “petaloso” coniato da un bambino incolpevole del plauso della propria insegnante, oggi prosegue quella pessima strada, dimentico di una lingua italiana che nei secoli ha dato i più alti esempi di cristallina bellezza, semplicità e soprattutto comprensibilità. Facciamo dunque come I mangiatori di patate di Vincent van Gogh o, se ne siamo in grado, come La colazione sull’erba di Claude Monet, ovvero parliamo e scriviamo come mangiamo. Faremo, senza dubbio alcuno, miglior figura!

Aggiornato il 19 aprile 2023 alle ore 12:30