Riflessioni “in grate”: cosa bolle nella pericolosa fornace penitenziaria

L’imponente rappresentazione scenica celebrativa del 207° anniversario di fondazione del Corpo della Polizia Penitenziaria in Piazza del Popolo, lo scorso 11 marzo, a Roma, per quanto evocativa di antichi fasti imperiali, non sembra però essere riuscita a intercettare il malessere e la delusione diffusa tra i direttori penitenziari, tra quelli degli uffici dell’esecuzione penale esterna e della giustizia minorile, ma anche tra i quadri dirigenziali contrattualizzati. Eppure il predetto personale, ancorché non appartenente alle Forze di polizia (così come impongono le stesse regole penitenziarie europee del Consiglio d’Europa), svolge, indubbiamente una funzione essenziale, di rilevanza pubblica, che facilita il conseguimento del bene collettivo della sicurezza. A poco, infatti, giovano le frequenti diffusioni di veline rassicuranti, ove si esibiscono iniziative trattamentali e rieducative rivolte alle persone detenute, se poi per davvero non si interviene sul complesso organizzativo amministrativo (al cui vertice, in pochi anni, si sono avvicendati ben sei, diconsi sei, capi dipartimento, provenienti tutti dalla Magistratura: Tamburino, Consoli, Basentini, Rinoldi, Petralia, Russo).

Anche a causa di questo moto continuo, tutto il sistema dell’esecuzione penale ha subito dei veri e propri shock amministrativi, aggravati dal fatto che, probabilmente, ma mi smentiscano se sbaglio, mai c’è stata una interlocuzione tra il “board” del Dipartimento e i Governi, con le loro variegate maggioranze, per conoscere quello che sarebbe stato il livello di impatto ambientale carcerario allorquando si volessero partorire nuove fattispecie penali le quali, inevitabilmente, avrebbero accresciuto il numero di persone detenute all’interno delle nostre inadeguate prigioni, determinando un maggior fabbisogno di risorse umane e strutturali, nonché un più rilevante costo per l’erario, a causa dei servizi minimi da erogare (igiene, vitto e alloggio, cure sanitarie).

Gli istituti, così, si sono progressivamente trasformati in orribili contenitori di esseri umani in cattività, oppure in liste di folli, umiliati dalla malattia mentale, in attesa di un posto libero nelle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), mentre all’esterno, un numero pauroso di persone, con condanne già passate in giudicato, aspettando di vedere formalizzato l’ordine di esecuzione, preme sui portoni delle carceri, pur ove taluni, nel frattempo, abbiano trovato un lavoro o una casa, insomma una possibilità di reinserimento nel sociale alla quale, ovviamente, dovranno rinunciare. Ma è soprattutto nelle carceri che si è perfezionato un diabolico paradosso: di fatto, le pessime condizioni di vita che vengono assicurate spingono, contro ogni finalità di sicurezza, le persone detenute ad ingenerare un odio continuo e progressivo verso il personale penitenziario, in particolare nei confronti degli appartenenti alla Polizia Penitenziaria, ma anche verso la società esterna, percepita quale complice di quanti consentano, quotidianamente, il perpetrarsi di situazioni disumane e degradanti.

Da qui, un moltiplicarsi di aggressioni, autolesionismi, proteste, scioperi della fame, che produrranno altri reati e/o condotte di rilevanza disciplinare: insomma, fuoco su fuoco! Le pessime condizioni strutturali di quasi tutte le carceri, inoltre, potrebbero favorire il pericolo che possa sciaguratamente insinuarsi in alcuni, tanti o pochi non si può dire, una linea di pensiero che contesti e rifiuti i principi costituzionali, piuttosto che la doverosa difesa degli stessi. Il rischio di una degenerazione potrebbe orientare l’Apparato a privilegiare dei modelli di regime carcerario innaturali per il mondo penitenziario occidentale, nonché in contrasto con una tradizione di umanesimo italiano, indirizzando il governo degli istituti verso il primato della forza (la quale, com’è noto, nelle situazioni fuori controllo, può potenzialmente tradursi in abusi e intimidazioni che a loro volta possono degradare in violenza), trasformando i luoghi detentivi da contesti di comunità penitenziaria (allocuzione tanto cara al compianto Marco Pannella), in territori di nuovi e più accesi conflitti, finanche permanenti.

Guai se prendesse piede un orientamento che invocasse una gestione delle carceri non in punto di diritto, e con una buona organizzazione dei servizi pubblici da erogare, ma di manganello (rectius “sfollagente”, per il quale, ove non si sapesse, si tengono perfino dei corsi di formazione ad hoc per i neo funzionari del corpo nella scuola dedicata a Giovanni Falcone), riportando così il clima dei penitenziari di tutta Italia ai peggiori tempi degli anni del terrorismo e delle guerre di camorra e di mafia. L’insieme delle criticità che non da oggi si vivono, ma che si sono negli ultimi anni ulteriormente accentuate, sta di fatto innescando una vera e propria bomba ad orologeria, la quale potrebbe esplodere da un momento all’altro, con conseguenze inimmaginabili e non solo per il mondo penitenziario.

Anche per questo motivo, il coordinamento che presiedo denuncia come, ancora una volta, siano stati lasciati soli i direttori e tutto il personale penitenziario della prima linea, costituito da quello, innaturalmente, collocato nelle cosiddette “funzioni centrali”, insieme ad una buona parte (ed il termine “buona” è nella doppia accezione) della Polizia Penitenziaria, composta soprattutto da agenti, assistenti, sovrintendenti ed ispettori, i quali ancora attendono, vanamente, in ogni istituto penitenziario, un numero congruo di dirigenti del Corpo (nella dotazione organica se ne contano ormai 715), affinché condividano con i primi la fatica di un lavoro senza pari, onorando il motto che li avrebbe dovuti distinguere dagli altri appartenenti alle forze dell’ordine: Despondere spem est munus nostrum. I poliziotti penitenziari, insieme a tutti gli altri operatori penitenziari, sono e rimangono indispensabili specialmente all’interno delle carceri, nonostante che vi siano organizzazioni sindacali che ne auspichino perfino la fuoriuscita, così rischiando di appiattirli ad una mera attività esterna di sorveglianza, la quale, con le tecnologie attuali, ben potrebbe essere compensata dall’Intelligenza artificiale e da più moderne forme di controllo, facendo così venir meno la ragione di un Corpo di uomini e donne che proprio nell’operare nei luoghi della pena deve la sua caratterizzazione. Ma si sa, il carcere spaventa quanti non sappiano affrontarlo e, soprattutto, non intendano conoscerlo.

(*) Penitenziarista, coordinatore nazionale dei dirigenti penitenziari della Fsi-Usae (Federazione sindacati indipendenti dell’Unione sindacati autonomi europei)

Aggiornato il 13 marzo 2024 alle ore 16:19