«Così ho fatto le scarpe alla crisi»

C’è chi invece di fare i conti con la crisi, ha deciso di farle le scarpe. Letteralmente. Lui si chiama Vincenzo Pietrarelli, ha 26 anni, vive a Finale Ligure, nota località balneare in provincia di Savona, e da circa un anno fa il calzolaio. Ripara scarpe, borse, articoli di pelletteria, realizza zoccoli su misura, e si cimenta anche nella produzione in proprio di portafogli, portamonete, cinture, ma anche porta iPad, porta-smartphone e custodie per cellulari in pelle. Di recente un cliente gli ha chiesto di fare una custodia per il telecomando del cancello elettrico. Lui non si è scomposto e gli ha domandato di che colore la preferisse. Il lavoro è sempre il lavoro.

Ma nonostante gli piaccia molto creare oggetti nuovi, il grosso dell’attività consiste nelle piccole riparazioni: «Fino a poco tempo fa, se si rompeva una scarpa o una borsa, la gente non ci pensava due volte e la buttava via» racconta. «Adesso, con la crisi, è diverso: i soldi sono sempre meno, e se qualcosa si può aggiustare è sempre meglio che gettarla». Vincenzo, Enzo per gli amici, ha intuito che questo “ritorno al passato” in tempi di vacche magre avrebbe potuto diventare un piccolo business. Un business del passato, certo, ma comunque un mestiere, un posto fisso fatto in casa nell’epoca in cui anche il lavoro precario può essere un miraggio.

E così, nel paese che snobba il lavoro manuale, dove tanti giovani preferiscono restare nella schiera dei senza-lavoro piuttosto di “sporcarsi le mani”, anche a costo di mandare all’aria una tradizione artigiana ammirata ed invidiata in tutto il mondo, Enzo ha scelto di intraprendere proprio uno di quei mestieri che ormai si vedevano solo più nelle sagre di paese e nelle rievocazioni storiche, vicino al maniscalco, al falegname e al fabbro ferraio.

Secondo un recente studio della Cgia di Mestre, entro il 2022 si perderanno per strada 380mila posti di lavoro nel settore artigiano e in quello dei lavori manuali in genere. Orologiai, meccanici, calzolai, sarti, ma anche autisti, addetti alle pulizie e venditori ambulanti. Colpa anche della crisi, ma soprattutto del disamore degli italiani per tutti quei lavori che non siano intellettuali.

Contro ogni statistica, Enzo ha fatto una scommessa con se stesso e con chi gli diceva di lasciar perdere, che non era il momento, che rispetto ad un salto nel buio come quello era meglio continuare a fare il precario in attesa di tempi migliori. Non ha una laurea da appendere al muro (o da chiudere in un cassetto, visti i tempi che corrono), e prima di aprire il suo laboratorio si è dato da fare per molti anni come cameriere in una pizzeria e con altri lavoretti saltuari. Ciononostante non si è mai sentito svantaggiato, non si è mai sentito una vittima. Anzi. Quando si è trattato di decidere che cosa fare “da grande”, ha fatto una scommessa, e l’ha vinta.

Ora ha clienti che arrivano apposta dalla Lombardia e persino dall’Austria per portare scarpe e accessori da rimettere in sesto. «Il segreto – racconta - oltre ovviamente a fare un buon lavoro, è quello di essere corretti. Non serve chiedere al cliente cinque euro per un lavoro che ne vale due. Può sembrare una sciocchezza, ma la gente lo apprezza, e a lungo andare fa la differenza». È così che si è conquistato la stima e l’apprezzamento non solo dei concittadini finalesi, ma anche di tantissimi turisti che mettono da parte le cose per il laboratorio di Enzo in attesa che arrivino le vacanze. «Non posso camminare per Finale Ligure senza che mi fermino per chiedermi un parere su una suola scollata o una tomaia con il buco, nemmeno fossi il medico del paese cui la gente racconta i propri acciacchi» scherza. «La mattina, se voglio arrivare in negozio in tempo -  racconta sorridendo -, devo evitare le strade affollate».

Non è stato facile, però. Le tasse, l’esoso investimento iniziale per comprare i macchinari, il quasi totale disinteressa per i giovani che gettano il cuore oltre l’ostacolo scegliendo di fare impresa senza essere “figli d’arte” ereditando l’attività dei genitori avrebbero scoraggiato tanta gente. Ma non lui. Suo padre, sottufficiale della Guardia di Finanza, non aveva una bottega da lasciargli. Il suo mentore è stata la zia, che anni addietro aveva avuto anche lei una calzoleria, e che gli ha insegnato i rudimenti del mestiere. Il resto ha dovuto farlo tutto da sé. Del resto, aspettarsi qualche altro tipo di aiuto dallo Stato o da qualche associazione artigiana che non fosse un plauso o una pacca sulla spalla sarebbe stata una pia illusione.

Nel suo piccolo, Enzo ha compiuto un mezzo miracolo. Perché ha fatto delle tante difficoltà una variabile del gioco, e non un ostacolo insormontabile. Perché dimostra a tanti suoi coetanei in cerca d’autore che l’idea giusta non dev’essere necessariamente fuori dall’ordinario, e che a volte può bastare rimboccarsi le maniche per cacciarsi fuori dal vicolo cieco della disoccupazione e della precarietà. Ma anche perché contribuisce a combattere l’assurda mentalità italiana secondo la quale un lavoro manuale debba essere per forza un mestiere di serie B, sempre un gradino sotto ai lavori cosiddetti “intellettuali”. Come se il “Made in Italy” che il mondo ci invidia fosse nato in un circolo di teste d’uovo, anziché nelle piccole botteghe artigiane come quella di Enzo.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:09