La carestia cinese: una storia taciuta

Il libro di Yang Jisheng sottolinea come alla cecità dei pianificatori si sia aggiunta l’arroganza dei potenti. Trentasei milioni di morti. Per il ricordo dei quali solo di recente è stata eretta una metaforica stele funeraria: un grande lavoro di ricerca e di scavo, per restituire a quella tragedia almeno la possibilità della memoria.

È “Mubei”, l’imponente saggio di Yang Jisheng, giornalista che ci ha fatto l’onore di tenere l’ottavo Discorso Bruno Leoni, lunedì scorso, a Torino. Già tradotto in inglese e poi francese e tedesco, ed ora in traduzione anche in italiano, è il primo lavoro di un intellettuale cinese sulla grande carestia degli anni 1958-1962. Una tragedia costata la vita, secondo le scrupolose stime di Yang, per l’appunto a trentasei milioni di persone.

Ciò che avvenne in Cina, in quegli anni, è forse il più grande esperimento mai realizzato di “collettivizzazione” della produzione e financo del consumo di cibo: i pasti, o quel poco che li rappresentava, dovevano essere consumati obbligatoriamente in mense collettive, perché anche l’atto del mangiare una razione di riso fosse sottratto ai pericoli che l’intimità familiare arrecava all’utopia collettivista. Le grandi carestie, ci ha insegnato Amartya Sen, non sono il frutto di un calo della produzione. Come notano Ronald Coase e Ning Wang in “Come la Cina è diventata un Paese capitalista”, “non poteva esserci nulla di più tragico e insensato del fatto che, mentre milioni di contadini cinesi morivano di fame, la Cina esportava grano in maniera aggressiva”.

L’origine di una carestia dai contorni agghiaccianti fu dovuta, ha ricordato Yang Jisheng - che a Torino per la prima volta ha potuto rivolgersi, direttamente, a un pubblico europeo - alla superbia delle autorità cinesi, Mao in testa, di voler pianificare l’economia agricola e industriale, non solo obbligando lo spostamento di migliaia di contadini dai campi alle fabbriche, non solo costringendo all’esportazione dei generi alimentari, ma ritenendo persino di poter calcolare e razionare il fabbisogno individuale e giornaliero di cibo, senza alternativa di libera scelta per le persone.

Nel recensire il libro di Yang Jisheng, l’Economist opportunamente ricordava queste parole di Friedrich von Hayek, da “La via della schiavitù”:

“Ogni tentativo di controllare i prezzi o le quantità di particolari beni priva la concorrenza del suo potere di realizzare un efficace coordinamento degli sforzi individuali, perché i cambiamenti di prezzo cessano di registrare tutti i cambiamenti rilevanti nelle circostanze e non forniscono più una guida affidabile alle azioni degli individui”.

Il libro di Yang Jisheng sottolinea come alla cecità dei pianificatori si sia aggiunta l’arroganza dei potenti. Uno dei paragrafi di “Tombstone” riprende la massima di Lord Acton: il potere assoluto corrompe in modo assoluto.

Nell’impalcatura ideologica della Cina di quegli anni, scrive Yang, “gli individui comuni potevano servire solo a uno scopo: sacrificare tutto ciò che era loro per il comunismo. (…) Il principio fondamentale del partito era il ‘centralismo democratico’, ma la realtà era quella di un centralismo senza democrazia, o di una democrazia usata esclusivamente come strumento per il centralismo”.

Quella di Yang Jisheng è una testimonianza formidabile non solo circa il funzionamento di una economia pianificata, ma anche riguardo le dinamiche politiche di un regime autoritario, nel quale davvero come suggeriva Orwell il linguaggio politico diventa un artificio per far sembrar vere le menzogne fino a nascondere, per decenni, gli avvenimenti della storia.

La carestia cinese del 1958-1962 è stata una indicibile tragedia, di proporzioni addirittura superiori ad altre tremende pagine della storia dell’umanità: la più parte scritte nell’ultimo secolo. È un dovere tenerne viva la memoria. Lo è verso chi ne è stato vittima, lo è verso le generazioni future. Non c’è ragione di ripetere gli errori dei nostri nonni: pensiero banale, ma proprio la storia politica del Novecento ci ha insegnato che non c’è nulla che si possa dare per scontato. - See more at:

Tratto da http://www.brunoleoni.it/

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:36