Prostituzione in scena   al “Teatro Brancaccio”

Che bordello, il teatro! Vero come non mai, nel caso dello spettacolo “Dignità autonome di prostituzione”, di Luciano Melchionna - grande “patron” e amministratore unico del bordello teatrale - che ha appena chiuso i battenti al Teatro Brancaccio di Roma.

Nel caso specifico si può davvero parlare di vicinanza quasi epidermica con la materia teatrale, in cui valletti prostituti ambosessi orientano i clienti verso le maitresse preferite. La scena si apre da fuori, quando i “clienti” (spettatori) vengono respinti all’esterno dei botteghini, per ricollocarsi direttamente sui marciapiedi che, poi, tanta parte avranno nel seguito. Sono i valletti del casinò ad irretire il pubblico pagante, con le loro mossette leziose, mostrandosi dai finestroni superiori come tante bambole viventi esposte in vetrina nelle case di tolleranza di Amburgo.

La stessa atmosfera, molto più compressa, si realizza subito dopo l’ingresso del pubblico, obbligato transitoriamente a stazionare nello spazio antistante alla platea, che ha il grande vantaggio di una scala bilaterale, balconata, alta e ripida, in cui maitresse e valletti, scendendo lungo le passerelle bilaterali, mostrano i loro richiami sessuali muovendosi e cantando in coro, accompagnati da una musica assordante e da luci stroboscopiche.

Poi, finalmente, l’ingresso in sala: poche le sedute rimaste agibili, all’interno di una platea terremotata, dove file intere di poltrone sono ribaltate e sovrapposte a quelle sottostanti. Il palcoscenico si duplica in basso, in una sorta di mini teatro circolare costruito come una sorta di ring, leggermente sopraelevato rispetto al pavimento. Ed è quest’ultimo trampolino scenico a fare da sistematico attrattore, tormentato da un moto perenne in cui tutte le figure, coloratissime, in costumi fiabeschi, sono inseguite e braccate dalle luci multicolori dei fari. Un faretto mobile è puntato e orientato manualmente verso l’alto, da un presentatore-mezzano improvvisato che, di volta in volta, lo muove verso la prima balconata semicircolare, dalla quale si affacciano i prostituti, presentandosi ora con un semplice saluto, ora improvvisando e anticipando pezzi di vera bravura del loro nascosto repertorio, magari pencolando incoscientemente dalla balconata.

Il palchetto centrale gioca un po’ il ruolo del bosco dei folletti, con un’imponente violinista scosciata che accompagna i cantanti, alternandosi perfino con una perfetta pianista di pianola, che fa da spalla a una rediviva Fiordaliso nei suoi pezzi più noti, o in delicati assolo, alla presenza di pochi clienti superstiti, giocando così l’intermezzo durante le varie “consumazioni”. In un’orgia di personaggi ambigui, spicca per il talento innato un clown “polifunzionale” e polimorfico, un vero gioiello di artista di circo, che diverte il suo pubblico, ora facendo scivolare, con gli enormi piedi finti, una gigantesca palla tra grumi di confusi ospiti in cerca di avventure; ora salendo con la stessa palla o su enormi trampoli, sul palcoscenico, per di più ruotando, come un navigato giocoliere, le sue tre clavette, in modo da verticalizzare, con le sue buffe dinamiche, l’attenzione di tutti.

Le avvisaglie circensi stimolano l’ilarità di una platea già precedentemente manipolata da un mare di battute, agitate come altrettante clave verbali, da quattro maitresse (due donne e due uomini), che introducono dal palcoscenico principale lo spettacolo vero, giocando il ruolo della ninfomane, della frigida, del cerebroleso e della checca isterica.

Sul piccolo ring centrale (che ospita un microfono a stelo e pochi strumenti musicali), si alternano, annunciati dall’amministratore, cantanti esclusivamente femminili (davvero bravissime, come Momo, interprete androgina di grandissima efficacia, che offre vere emozioni con il suo tormento). Tra tutte domina la voce straordinariamente potente ed educata di una sorta di Luciana Turina, dalle dimensioni raddoppiate, la cui “corporeità” è impossibile ignorare. Ma il gioco vero, quello per cui nasce questo spettacolo davvero geniale, è tutt’altro. All’ingresso, assieme al biglietto, ogni spettatore si vede consegnare un numero prefissato di “fiches” (minuscoli facsimile di “one dollar”), con le quali, per libera contrattazione tra le parti, potrà scegliersi le maitresse di suo gusto, che andranno a popolare - con i loro clienti - capienti camerini e, persino, bagni e androni delle scale di sicurezza.

Così, come nel rito di ogni bordello che si rispetti, i clienti-spettatori sono “dragati” (francesismo che sta per “rimorchiati”) dai vari prostituti e dai valletti-mezzani, per poi essere condotti nelle stanze e “manipolati” da mani esperte. La regola è: stare attenti a spendere bene i “dollarini”. Perché i parsimoniosi, organizzandosi adeguatamente (mia moglie ha avuto l’idea di proporre tre dollarini a coppia, per ciascuna performance), possono riuscire a godersi più di due minispettacoli. Per chi li finisce è pronto il capiente borsello dell’amministratore, che cambia gli “euro” veri in un parsimonioso pacchetto di fiches. Già, perché i prostituti cercano di vendere a caro prezzo la loro materia attoriale, mostrando a un pubblico molto ristretto i loro pezzi di bravura, rigorosamente monologanti, tratti da opere celebri (come “Lolita” o il manifesto di Papini per la chiusura delle scuole), reinterpretati e talvolta riscritti da loro stessi, sempre sotto la supervisione di “Papy” (Luciano Melchionna). Vi può così capitare, com’è successo a me, di trovarvi di fronte a una Giovanna, magra e allampanata, completamente spiritata, che racconta la sua storica tragica di incesto, con un disgustoso padre-padrone finito ammazzato, grazie alla complicità di moglie e figlia che, al colmo del dramma, finisce la sua vita in un manicomio criminale.

Oppure di avere a che fare con una perfetta Lolita, che seduce, si spoglia e ti fa arrossire con la sua lascività, chiedendoti un bacio maturo, o sedendoti sulle ginocchia quando meno te lo aspetti. Poi non vi lasciate catturare da quella nanerottola anarchica, vestita con un tutù - al quale è sovrapposto, per la bisogna, un buffo vestito di scolaretta - con spiccato, esilarante accento napoletano, perché rischiereste di finire in castigo, all’angolo, come “pedofili”, per averle guardato le cortissime gambette, maliziosamente mostrate dallo scalino più alto di una scala di sicurezza. Ma la sua recitazione, accorata e perfetta, del manifesto di Papini per la chiusura delle scuole, è un pezzo di bravura recitativa, che fa capire quanto profonda sia stata la formazione di base e la sperimentazione di se stessa.

Poi, tutti dentro per il gran finale musicale. Fino a tarda notte. Nei volti dei clienti, prosseneti e prostituti, alla fine, non si legge nessuna fatica. L’incanto, in fondo, di essere normali, tutto istinto e curiosità, che solo un geniale teatro di provocazione interattiva riesce a regalare. Perché, in fondo, malgrado tutto, “La vita è bella!”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:33