Non c’è giapponese migliore di un gaijin morto

All’inizio striscia nell’acqua torbida del ventre di Tokyo attraverso la patina umida dello sguardo fisheye di pesci sguazzanti già pronti per il desco. Alla fine cala come l’ala di un aeroplano kamikaze che sgancia sul Belpaese la bomba del protagonista, Alex un italiano nippofilo, costretto ad abbandonare il Giappone, vittima delle sue dure leggi sull’immigrazione. In mezzo c’è il romanzo, “Doromizu”, dal 23 febbraio nelle librerie, per i tipi della Mondadori “Strade Blu Narrativa”, dell’autore Mario Vattani, che alla sua prima opera letteraria, compie quest’atto d’amore verso Cipango. Nato parigino, educato a Londra; il nazionalista italiano guida il lettore per i quartieri impenetrabili della sua seconda patria, tra cucine, stazioni di polizia, bondage, omicidi, palestre, sale da manager, case, casini, piazze, manifestazioni, alberghi, istituzioni, consolati e bettole di una Tokyo delicata e frenetica.

Da Crichton a Ellroy, il Giappone resta un grande tòpos della letteratura contemporanea. L’occhio occidentale, come nel caso dei due americani, lo odia o lo ama. Le donne spesso raccontano di esperienze infelici come Antonietta Pastore in “Leggero il passo sui tatami”, oppure la moglie di Tiziano Terzani, Angela Staude, in “Giorni giapponesi” o ancora la Renata Pisu in “Alle radici del sole”. 

Ben peggiore la vicenda, autobiografica, della scrittrice belga Amélie Nothomb, anch’essa di ambiente diplomatico, di “Stupore e tremori” che le valse il premio dell’Academie Francaise, non le risparmiò la degradazione professionale subìta in una multinazionale giapponese per incomprensione della complessa gerarchia interna; partita come manager che parla il frajaponais, finirà a fare la guardiana dei cessi.

Cosa aspettarsi dallo strano e folle Sol levante dove una costrizione femminile ben più profonda del velo islamico o delle scarpette strette, assegna alle donne una propria variante di lingua giapponese, l’isonna kotoba (distinta dal linguaggio otoko kotoba) piena di stridulii ed espressioni onorifiche per l’altro gender? Paradossalmente le lamentele provengono dalle stesse che poi adorano “Il magico potere del riordino”, il metodo inventato da Marie Kondo per trasformare con l’arredamento anche l’approccio alla vita. 

Il Giappone resta però, incredibilmente, un estremo Oriente geografico, divenuto parte completa sociale del nostro Occidente; basta guardarsi attorno tra elettronica, auto, brand, oggetti di consumo, arti marziali, zen, tatuaggio irezumi, kendo, karate, buddismo, manga e hentai; un patrimonio che da decenni è ovvia parte del nostro landscape.

Non solo, esiste per Italia e Giappone un destino comune di storia, tra contrazione demografica e crisi per assenza di politiche di riforma. Al verismo di Verga e Capuana, corrispondeva nel periodo Meiji, lo Shishōsetsu o Romanzo dell’Io, frutto del movimento naturalista. D’Annunzio agognava di abitare un vecchio tempio di legno fra i ciliegi lievi. Tokyo è tutta moda e cucina italiana. Nel mondo è trendy presentare un doppio menu di sushi e spaghetti.

Tutto sta - come fa Vattani - a non assumere lo sguardo cieco del gaijin straniero, a non fermarsi al formalismo che Goffredo Parise nell’Ottanta descrisse come “L’eleganza è frigida” rifacendosi al verso di Saitō Ryokuu in “L’eleganza è fredda”, presente nel “Libro d’ombra” di Junichiro Tanizaki, a non temere di sparire nel nulla come capitato al professore smarrito tra Sendai e Morioka del racconto “Un banale errore” di Boris Biancheri, ambasciatore d’Italia a Tokyo.

In “Doromizu” il diavolo bianco, goffo, sudato e volgare, ma anche bello (ikemen) e bella (bijin), viene subito sacrificato innescando le peripezie del protagonista, attraverso l’improvvisa ricchezza, l’apertura delle porte del cinema ed una nuova vita da giapponese integrato. È questa sublimazione che permette di entrare in questo nuovo mondo e di apprezzarne anche le pazienti, arcigne e solide istituzioni, impersonate dal capo della polizia.

Allora il nuovo “Doromizu”, acqua torbida come acqua fango, può risalire fino all’ispirazione originaria di Nigorie (acqua torbida come corrente fangosa), opera di Ichiyō Higuchi, esponente della letteratura giapponese dell’800, che narrò del successo nella vita, per tornare alla nostra “Amélie”; del romanticismo nella povertà e nella prostituzione, del suicidio d’amore, in una lingua yamato-kotoba, tutta femminile, mendata dai caratteri cinesi, considerati maschili.

Di questo sussuranno le ragazze giapponesi al nippoitaliano del romanzo, magari mentre pensano ai soldi per la chirurgia estetica che le allarghi loro gli occhi ed insieme al relativo trucco rosa sotto le palpebre che dona un maggiore pallore emaciato. Perchè il Giappone è terra dei bianchi per eccellenza dove i coloured siamo noi. 

Fino a che sussurri e felicità ormai a portata di mano sfuggono al protagonista, portato via proprio come l’autore che dovette abbandonare Osaka e Tokio, consolato e ufficio commerciale, per le dure leggi della politica. Entrambi però non sono più gaijin e non lo saranno più neanche i lettori dopo “Doromizu”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:25