Davvero ci troviamo oggi in un clima di Guerra fredda 2.0? Dal punto di vista teorico, sembrerebbe proprio di sì. Almeno così sostiene anche Federico Rampini nel suo ultimo saggio “La Seconda Guerra Fredda” (Mondatori 2019).

Tuttavia, per varie ragioni, il titolo relativo mi sembra abbastanza improprio, per alcuni, fondamentali motivi. In primo luogo, oggi non vi è più un “Territorio” fisico del contendere, visto che si tratta per lo più di una guerra virtuale dove il predominio neoimperialista si gioca sulla conquista delle miniere planetarie dei Big Data e sulla capacità sempre più invasiva ed evoluta di “hackering”. Questa nuova arma ha effetti offensivi devastanti, in grado di paralizzare e provocare gravissimi malfunzionamenti in settori di attività strategiche, quali: i sistemi informatici di guida dei missili intercontinentali; gli scambi finanziari internazionali; i network e le banche dati degli organismi statali; etc.. Un secondo fondamentale aspetto della guerra degli hacker è quello di depredare sistematicamente know-how avanzato in tutti i luoghi dove questo si produce, avendo come supporto attività di digitalizzazione per lo sviluppo degli elaborati di ricerca e per la brevettazione dei contenuti top-secret. Oggi gli hackers nazionalisti cinesi, russi, iraniani in questo nuovo conflitto “freddo” entrano letteralmente nei territori di stati sovrani “nemici” senza prima dover ritirare i propri ambasciatori.

Rampini ha una visione per così dire “stroboscopica” del problema (dove l’oggetto illuminato e rallentato è l’intero Globo Terrestre!), avendo da sempre, per motivi professionali, un piede in Asia l’altro in America. Nel suo caso, è come abitare in un condominio dove una finestra dà sul cortile della Casa Bianca e l’altra sulla Città Proibita degli imperatori cinesi. Così, ancora più efficace di Terzani e Fallaci, la sua lente di ingrandimento magnifica aspetti che altrimenti sfuggirebbero all’attenzione del grande pubblico, riportando la vera sfida intercontinentale ai suoi caratteri essenziali. Il più importante in assoluto è quello, per così dire, del confronto tra oligarchie e democrazie rappresentative in cui i termini non sono più astratti, bensì assolutamente concreti, come il confronto sul funzionamento reale dei Sistemi-Paese: Cina; Russia; America e Europa. Il “Democracy Building” di bushiana memoria si è rivelato un fallimento completo (come in Iraq, avendo dato un’anima globale al terrorismo jihadista e favorito la nascita del mostro fondamentalista dell’Isis): “Paul Collier (autore del “L’ultimo miliardo”, Laterza 2009) ha dimostrato come la democrazia partitica esportata in Paesi poveri e con divisioni etniche tende a aumentare la violenza. Xi Jinping ha trasmesso questo messaggio in modo subliminale ai suoi cittadini, quando ha dato grande visibilità sui media [...] alla rissa sguaiata tra Donald Trump e Hillary Clinton [che] gli sembrava infamante per la reputazione della democrazia americana”.

In secondo luogo, il titolo mi sembra improprio perché i veri antagonisti del conflitto sono oggi i sistemi di sviluppo a confronto: dirigista-capitalista, quello della Cina; liberal-protezionista quello americano; un ibrido tra i due e non meglio specificato quello russo. Xi ha da un lato ha espanso alla massima dimensione possibile la bolla del capitalismo assistito dallo Stato, finanziando con denaro pubblico la totale depredazione del territorio cinese attraverso la costruzione di immense cattedrali nel deserto e di città fantasma, pur di drogare lo sviluppo interno. Questi prezzi terribili rappresentano una cambiale differita che, come per i debiti pubblici nostrani, qualcun altro dovrà pagare tra trenta anni. Dall’altro, però, Xi ha avviato in Africa e in Asia un capitalismo di conquista (con la “Belt and Road Initiative”), attraverso una cooperazione fatta di infrastrutture e di investimenti produttivi concreti.

Ma davvero il vertice del Pcc (Partito Comunista Cinese) si forma per cooptazione arbitraria e satrapica dei suoi membri? Esattamente l’opposto: come ai tempi dei nostri Partiti-Chiesa, l’ascesa dei dirigenti avviene grazie a un “cursus honorum”, per cui da incarichi politici nei distretti locali si passa a quelli regionali e poi nazionali, secondo una griglia di merito oggettiva, tra cui oggi rilevano l’aumento dei redditi medi individuali; la “public opinion”, sebbene misurata indirettamente; la sostenibilità ambientale e la riduzione dell’inquinamento. Questo e moltissimo altro, di contenuto geostrategico rilevante, è possibile desumere dalla lettura attenta dell’illuminante e prestigioso saggio di Rampini.

Aggiornato il 18 dicembre 2019 alle ore 13:53