In ricordo di Theo van Gogh

Curioso mondo questo, si può essere seguaci dei peggiori regimi criminali ed essere ricevuti nei salotti, si possono diffondere le peggiori balle o teorie complottiste in qualità di ospiti fissi di importanti talk-show e spettacoli televisivi, ma se si toccano i miti della società “multiculturale” il linciaggio è di rigore: si viene subito sepolti sotto veementi, ottuse e fanatiche tonnellate di banalità, di frasi fatte, di tautologie della mutua, di teoremi insostenibili e di sillogismi sgangherati. Quando era ancora in vita, Theo van Gogh è stato accusato di essere “razzista-xenofobo” allo stesso modo con cui quarant'anni fa si era soliti bollare come “fascista” chiunque pensasse che la proprietà privata fosse un valore, che in Cambogia stesse accadendo qualcosa di spiacevole e che la Bulgaria non fosse governata da gentlemen. Gli stessi gonzi che predicavano l’ineludibilità della società senza classi, dopo essersi spazzolati di dosso i calcinacci del Muro di Berlino che gli era appena caduto in testa, cominciarono a vaticinare le magnifiche sorti e progressive di quella “comunitaria e multiculturale”.

Le parole d’ordine sono dunque cambiate, pochezza intellettuale e fanatismo isterico no. E così, sedici anni fa, esattamente il 2 novembre 2004, mentre tutto il settarismo disponibile nel continente si scaricava su George Walker Bush e Tony Blair, ad un fanatico islamico non rimase che scaricare la sua pistola su Theo Van Gogh colpevole di aver dato voce ad Ayaan Hirsi Ali in “Submission”. Theo van Gogh venne trucidato in piano giorno, nel centro di Amsterdam: dopo avergli sparato sei colpi di pistola e tentato di tagliargli la gola, l’assassino piantò nella sua pancia due coltelli, uno dei quali tratteneva un documento di cinque pagine contenente una fatwa nei confronti di Ayaan Hirsi Ali che da allora fu costretta a lasciare l’Olanda e a trasferirsi negli Stati Uniti. Il gesto di Mohammed Bouyeri, uno dei tanti invasati appartenente al gruppo estremista islamico Hofstad, fu del tutto logico, coerente e conseguente alla campagna di disumanizzazione in perfetto stile trotzkista scatenata da tutti i media in danno del regista e produttore olandese a suon di superficialità, luoghi comuni, millenarismo e subculture assortite e ben macerate in anni di fallimento.

Ancora oggi, a distanza di molti anni dal suo assassinio, Theo van Gogh viene descritto come un piccolo Hitler in salsa olandese. Eppure, l’avversione al fanatismo musulmano manifestata dal regista olandese era agli antipodi di quei gruppi neonazi tedeschi e italiani che non disdegnano di sfilare sotto le bandiere del “martire” Yasser Arafat. Nelle sue polemiche contro le comunità islamiche estremiste presenti nel suo paese, van Gogh non addusse mai ragioni razziste, che anzi respingeva con sdegno; la sua era una battaglia condotta in nome della tolleranza olandese, della cultura e dei valori occidentali. L’assurda accusa di razzismo mossa nei confronti del regista olandese non è venuta meno neppure dopo la sua morte, anche perché, come abbiamo visto, Theo van Gogh era un non-umano, non un indio né un sindacalista, men che meno un fedayn che risorge dalla barella, ma solo un regista, scrittore e produttore televisivo le cui opere e il cui pensiero erano invisi a un po’ tutta l’intellighenzia europea, uno cui Don Vitaliano Della Sala negherebbe i sacramenti, uno le cui foto steso sul selciato con un coltello conficcato in petto, e senza nemmeno la pietà d’un velo, sono finite su quasi tutti i giornali, uno di cui si può tranquillamente mandare in onda l’agonia come in un qualsiasi telefilm americano.

Uno, insomma, che se l’è cercata e meritata, come ha lasciato intendere l’Unità, definendolo “vittima dell’odio da lui stesso scatenato” (che sarebbe un po’ come dire: se fai arrabbiare il fanatico musulmano e ti becchi una fatwa e sei pallottole in corpo, la colpa è tua che hai scosso quei deboli nervi). Altri scrissero che l’azione delittuosa compiuta da Bouyeri fu una “reazione esagerata” e commentarono con frasi tipo "ha ragione, ma non si fa così", quasi si trattasse d'una questione di galateo.

Theo van Gogh era un radical-libertario che amava e difendeva la società olandese modellata sull’individualismo, una società dove ben poco possono attecchire ideologie statolatriche o collettiviste e, per diverse ragioni, nemmeno l’arabofilia di un Giulio Andreotti o di un Jorg Haider. Da questo punto di vista il regista e scrittore olandese non faceva altro che sostenere le ragioni ovvie del banale buon senso borghese: il fanatico musulmano non mette in pericolo la purezza del sangue e del suolo (come sostengono oggi molti leader islamofobi delle destre europee) ma lo stile di vita, la tolleranza ed il benessere che l’Occidente ha faticosamente costruito negli ultimi quattro secoli.

Ad eccezione di qualche pessima caduta di stile, di cui pure si rese colpevole, van Gogh diceva in modo brillante quanto molti pensano: una buona fetta di migranti, quella più povera e scarsamente acculturata, fugge la miseria che nasce da culture e concezioni della vita del tutto disadattate ad affrontare le sfide della modernità. Se queste persone sfuggono a tutto ciò e poi si ricreano lo stesso habitat, le stesse strutture sociali del Paese d’origine, chi glielo ha fatto fare d’affrontare i costi ed i rischi del viaggio? E le nostre società laiche, liberali e tolleranti possono davvero tollerare questi bubboni del XVII secolo nelle nostre città? Altro che ricchezza delle diverse culture, certo nessuno nega che vi siano culture di spessore paragonabile alla nostra ma tutto ciò ha ben poco a che vedere – nell’ottica radical-libertaria di un van Gogh o di un Pim Fortuyn – con quei disperati che arrivano in Europa per riprodurre lo stesso tipo di società da cui sono scappati. A scanso della rituale accusa di razzismo parliamo degli analfabeti italiani che sbarcavano dai piroscafi a New York. Chi può affermare senza timore del ridicolo che questi portassero nella valigia di cartone la civiltà di Dante Alighieri, Leonardo da Vinci o Raffaello Sanzo? Tutt’al più canticchiavano qualche aria di Giuseppe Verdi. La cultura viaggia sui libri non nelle valigie di cartone e sovente ha un biglietto di prima. Quelli erano dei disperati e tali rimasero finché vissero nelle Little Italy riproducendo il modello perdente da cui erano fuggiti e, con la notevole eccezione di qualche boss di successo, nessuno fece fortuna finché non decise di entrare a far parte della comunità ospitante abbracciando modi, valori e mentalità della cultura wasp.

Le accuse mosse nei confronti di Theo van Gogh rappresentano ancora oggi, a distanza di sedici anni, un monumento alla vergogna, un sublimato di stupidità, fanatismo e brutalità. Lui, da uomo libero, c’ha riso sopra, il fedele fanatico l’ha ammazzato. Benvenuti nel Seicento prossimo venturo, sono aperte le prenotazioni per un posto sulla Mayflower.

Aggiornato il 30 ottobre 2020 alle ore 12:10