Natale Pannofino: l’equilibrio sopra la follia

La chiacchierata con Natale Pannofino è stata terapeutica: autore ma non solo, anche attore, musicista, cantautore, doppiatore, traduttore, regista, docente, studioso delle religioni, cultore della Genesi e cuoco. Tutta questa roba va in ordine sparso, a seconda della giornata, dell’orario e del periodo. L’aspetto è tra Giancarlo Giannini e Russell Crowe, la voce è quella della sveglia che tutte le donne meriterebbero ogni mattina prima di iniziare una giornata di lavoro. Di origini pugliesi, nasce a Pieve di Teco (Imperia) e risiede a Roma da sempre. Una laurea in Lettere (Storia del Teatro e dello Spettacolo) presso l’Università La Sapienza di Roma. Tesi su Virgilio Talli e la nascita della regia teatrale in Italia. Punteggio: 110 e lode. Non c’è dubbio che Pannofino sia anche un secchione, ma di quelli spassosi. Uno che passa dalla battuta di Giuseppe Gioacchino Belli, portata al successo da Alberto Sordi ne Il Marchese del Grillo (“Io so’ io e voi nun siete un cazzo”), alla spiegazione dettagliata su cosa è il Nirvana, il fine ultimo della vita, lo stato in cui si ottiene la liberazione dal dolore terreno. Viaggia molto, Natale (non solo fisicamente), si ferma un periodo in Inghilterra a Kingston upon Hull, presso l’omonima università dove perfeziona l’inglese e segue corsi su comunicazione e tecnologia. Diplomato presso il Laboratorio di Esercitazioni Sceniche diretto da Gigi Proietti, selezionato da Vittorio Gassman vince il provino con borsa di studio per la Bottega Teatrale di Firenze. Frequenta il Conservatorio, collabora con Luca Ronconi nell’allestimento e nella ricerca musicale per il saggio dell’Accademia Teatrale Silvio D’Amico, La Fidanzata povera. Segue un seminario di Carmelo Bene sulla Fonè, scrive in collaborazione con Fabio di Iorio i testi di due spettacoli teatrali debuttati con successo al Teatro Parioli. Tra le tantissime cose che ha fatto in tv, mi piace sottolineare la partecipazione come coautore e attore al varietà Evviva di Enrico Vaime. Il suo nome si legge spesso nei titoli di coda di molti programmi Rai e Mediaset. Lavora tanto come attore, impossibile citare tutto, stessa cosa come autore e doppiatore. Ha curato le traduzioni e gli adattamenti dei dialoghi per le edizioni italiane di diverse serie televisive e film americani. Ha un rapporto straordinario con la famiglia d’origine di cui ci racconta qualcosa nel corso dell’intervista.

Natale, sei e fai tante cose: chi è veramente Natale Pannofino?

Un uomo libero. Anche se il concetto di libertà è ampio. Per citare Carmelo Bene: “Niente è così vincolante come la libertà”.

Mi puoi fare qualche esempio?

Certo! Bisogna imparare a intrattenersi da soli, a recuperare un rapporto con la propria solitudine e trasformarla nella conoscenza e nell’approfondimento del nostro io. Il più delle volte ci soffermiamo sui beni materiali, vogliamo il telefonino ultima generazione, la macchina potente: pensiamo solo alle cose materiali, invece di curare l’anima, lo spirito. Siamo tutti interconnessi. Io non posso fare a meno di te, degli altri e viceversa. Una lezione ce la sta dando questa pandemia: bisogna recuperare il concetto della disciplina, senza la quale non si va da nessuna parte. Qualsiasi obiettivo o percorso richiede disciplina. Attenzione, non è coercizione ma un metodo per poter costruire qualcosa. Qualunque essa sia. I ragazzi hanno l’illusione di avere tutto il mondo in un tablet, che sia tutto lì, ma la vita reale è altrove.

Che infanzia è stata la tua e che rapporto hai con la tua famiglia?

Felice. Ho trascorso l’infanzia a Imperia, negli anni ‘60. Vivevo per strada con gli amichetti del quartiere. Un mondo libero totalmente scomparso. E questa sensazione di libertà e di bellezza diventava ancora più prepotente quando andavo in Puglia d’estate da nonno Francesco tra i trulli di Cisternino, precisamente nella contrada La Fica. Erano estati semplici, fatte di cose genuine, di sapori e odori che ancora mi tornano alla mente. Bastava davvero poco per stare bene. I miei genitori, come molti della loro generazione, hanno fatto grandi sacrifici dedicandosi esclusivamente alla famiglia. Mio padre era carabiniere, mia madre faceva la sarta. Con loro ho avuto un rapporto di sani conflitti generazionali ma niente di irreparabile.

Hai un fratello, Francesco Pannofino, molto noto e amato dal pubblico, andate d’accordo?

Sì. Siamo complici e ci vogliamo molto bene. 

Come presero i vostri genitori la decisione che entrambi i figli volessero fare spettacolo?

Mio padre diceva che nella vita bisognava fare quello che ci piace. Lui era un autodidatta, avrebbe voluto studiare ma essendo il primo di otto figli, mio nonno non avendo le possibilità economiche, per correttezza nei confronti dei fratelli e per equità non glielo permise. Questo è stato per lui un cruccio che è durato tutta la vita, ha studiato tantissimo da autodidatta. E’ stato felice delle nostre scelte e posso dire di averlo visto fiero e orgoglioso in due momenti: quando mi sono laureato e, quando all’Accademia della Treccani davanti al premio Nobel, Rita Levi Montalcini, lessi alcune poesie durante un evento organizzato dal Ministero per le grandi personalità del ‘900. Anche per me fu una tappa importante, conoscere la Montalcini è stata un’esperienza unica. Una persona di grande umiltà e umanità. Per tornare ai mie genitori, mia mamma, Angela, ha 84 anni e sta bene. Mio padre, Andrea, è morto a 93 anni in pace con se stesso. Circondato dall’affetto dei suoi figli, della moglie e della nipote, mia figlia. Posso dire che per una volontà del destino o del karma, un incidente mi costrinse a tornare a casa dei mie genitori per un periodo piuttosto lungo. In quei mesi, ho avuto il privilegio di accompagnare mio padre negli ultimi momenti della sua vita tenendolo tra le mie braccia. Aveva un aspetto davvero sereno. E’ stato un uomo buonissimo: poco prima di esalare l’ultimo respiro gli ho visto una tale pace in volto, come se avesse raggiunto quello che i buddhisti identificano nel Nirvana. Dovremmo tutti recuperare il rapporto con la morte, tutto è collegato. Quando ho avuto l’incidente cercavo un ristorante al Ghetto e lì mi hanno investito. Ma fu grazie a quell’incidente che ho potuto salutare in questa dimensione terrena mio padre e stare più tempo con mia figlia. Il caso non esiste.

A proposito di ristoranti, ne avevi uno a Caprarola, il Pannofino’s Restaurant.

Esperienza molto interessante. Sempre a contatto con la gente, io ho bisogno di avere questa interconnessione in tutto quello che faccio. Un’estate ho coinvolto anche mia figlia, per farle fare un’esperienza nuova. Era diventato un punto di ritrovo di amici e clientela affezionata. Poi è avvenuto quello che ti ho già raccontato, l’incidente e tutto il resto. Come vedi, torna la connessione.

Uno dei brani che hai scritto, molto profondo, si chiama Padre Nostro, sono tue sia le parole che la musica. Come e perché nasce?

E’ la storia di un bambino che subisce le cose più brutte, dagli adulti, dalle persone che dovrebbero proteggerlo. Il brano è inserito in un progetto da realizzare con Freccero: teatro- canzone, in cui ci sono vari monologhi e alcune cose del poeta Giorgio Caproni. Lo spettacolo è strutturato per avere ospiti diversi ad ogni replica, per interagire con il pubblico spalancando definitivamente la quarta parete, la parte che a me intessa di più. Mi nutro di essa, questo è il teatro che mi prende il cuore, dove si respira all’unisono e si stabilisce l’empatia con il pubblico.

Il teatro era in crisi già prima della pandemia. Se si riaprissero adesso, cosa accadrebbe?

Oggi nessuno rischierebbe, ci sono paure e incertezze. In ogni caso il teatro deve tornare alla gente, non può essere una esibizione narcisistica. Uno dei mie maestri è stato Gigi Proietti e lui aveva centrato bene qual era il volere del pubblico. Il teatro deve emozionare e alla fine della rappresentazione deve farti riflettere. Le storie le racconta molto meglio il cinema. E in ambedue i settori ci vogliono più talenti. Non basta avere un copione, un costume e qualcuno che ti applaude. Non a caso l’origine della parola talento ha un significato molto concreto: il talento era un’unità di misura nell’epoca romana. Con il talento appunto, pagavano l’istrione, l’attore che si esibiva con enfasi. Più era bravo e più talenti guadagnava.

Ultimamente sui social hai pubblicato una riflessione accurata sul narcisismo, come mai?

Sì perché ritengo che sia il male del secolo, soprattutto per noi occidentali: io so’ io e voi… oppure la storia del Narciso di Caravaggio: il ragazzo che si specchia nel fiume e per tentare di baciare se stesso precipita e muore annegato. L’individualismo prima di tutto, a discapito dell’interesse comune. Mentre per gli indiani o i cinesi non è così. Sono educati al contrario, all’interesse collettivo. Il narciso esaspera l’individualismo. Ho letto che negli ultimi anni c’è un incremento dell’uso degli psicofarmaci, delle droghe e dei suicidi. Se identifichiamo l’interesse solo con il consumismo può solo accadere la morte dell’anima, quando invece andrebbe alimentata. La politica che stiamo vivendo ne è lo specchio. L’artista non può essere Narciso, deve avere la capacità di spogliarsi del proprio io e rappresentare un’altra entità. Non sei più tu, sei il mezzo, il medium: solo così può comunicare con gli altri.

Quanto è importante l’ironia?

Fondamentale, l’ironia presuppone il fatto di non prendersi troppo sul serio e tirare fuori la costruttività, un allenamento quotidiano per trasformare il dolore in gioia. Dosare bene veleno e medicina. Il dolore è il sale che si mette nei dolci per esaltare il sapore di tutti gli ingredienti.

Come stai vivendo questo periodo pandemico?

Questa è una crisi non solo sanitaria, ma anche del sistema. Tra qualche anno diremo prima e dopo pandemia. Proprio come con Cristo. Tutte le emergenze, le carestie, le guerre, alla fine ci hanno migliorato. Si può solo rinascere. Vorrei lanciare un messaggio di saggezza, io che per primo non vivo sulla luna e non sono miliardario. Vorrei che si riaprisse ogni cosa ma capisco il momento. Dobbiamo ritrovare un senso di comunità e fratellanza. Ci farebbe bene.

Il lavoro più interessante della tua carriera?

Nel 1995 su invito dell’associazione Anlaids di Fernando Aiuti e con il patrocinio di Gigi Proietti sono stato autore e regista, per l’associazione Pan, della commedia teatrale Rocce contro il vento, andata in scena negli Istituti e nei Licei romani con alto gradimento da parte di studenti e docenti. Il progetto era volto a sensibilizzare gli studenti sulle tematiche della prevenzione sanitaria e della sessualità sicura. Poi come attore, fare Valerio nel Tartufo di Moliere, con Paola Borboni.

Progetti futuri?

Il lavoro, perché è gioia e perché visto che sono ancora in questa dimensione terrena devo pagare le bollette. Spero di riprendere l’adattamento dei doppiaggi e di realizzare la mia Fiction che parla dei volontari.

Come sei arrivato a questa maturità?

Sono stato militante nella chiesa cattolica e contemporaneamente continuavo a studiare le religioni. Quando lessi Siddharta fu un vero colpo di fulmine. Il racconto di Hesse esorta il lettore a cercare la propria strada verso la saggezza. Anche se, te lo dico con molta chiarezza, troveremo pace quando ci sarà un’unica religione ed è quella della consapevolezza che siamo tutti interconnessi. Non solo essere umani, gli animali, le stelle, la natura tutta. Facciamo parte di un’unica realtà immortale. Quella non si ferma mai. La nostra anima è eterna ma il nostro corpo si trasforma. L’esperienza non si esaurisce qui, contribuisce a prepararci in qualcosa di diverso.

Sei innamorato? Intendo di una donna.

No, purtroppo no. Mi piacerebbe tanto, non te lo nascondo.

L’essenziale è invisibile agli occhi?

Assolutamente sì.

 

 

Aggiornato il 22 gennaio 2021 alle ore 09:46