Riflessioni su Heidegger

Si svolge in questi giorni a Roma presso l’Università La Sapienza (Villa Mirafiori) un convegno su Martin Heidegger nella valutazione di studiosi italiani.

Ho conosciuto e conosco alcuni studiosi di Heidegger e imitatori dello stile di Heidegger nello scrivere e nel pensare. Da anni vi è una fraseologia heideggheriana: essere, essente, esistente, autentico, “sì” come anonimato, liberi per la morte, gettato, cito minuzie, la personalità di Heidegger si espande nel modo in cui ripete, gira, torna sul detto in un circuito che dà mostra di ragionamento del filosofo assolutamente titolarizzato, il quale una espressione chiara e naturale la ripudia, deve mostrarsi attorcigliato e ragionatore meandrico, capace di labirintizzarsi nei cunicoli delle stanze segretissime del pensiero. In vero dichiarate con linguaggio corrente di notabile poco resterebbe di Pascal, Leopardi, Nietzsche, uomini chiari, si coprirebbero il volto, ma questo linguaggio a scale rigirate dà l’impressione di complessità avvolgente. E sia. In ogni modo è uno stile. Con una riuscita peculiare. Heidegger ha uno stile. Ma veniamo al pensiero.

La morte. Argomento fondamentale, sul quale parrebbe che Heidegger abbia rivelato l’irrivelato. E che rivelazione ha rivelato Heidegger? Che l’uomo muore! Attenzione: l’uomo muore ma non rivela a se stesso la mortalità, la occulta, la sposta nel “non adesso” o addirittura nel non per me. L’uomo inventa il “si muore”, non io muoio! In tal modo diventando un esistente generico e sperdendo l’essenzialità della morte, che è l’assolutante personale, il marchio dell’individualità, l’inevitabilità a cui l’Io è assoggettato. Heidegger ha totalmente ragione a ragionare nel modo in cui ragiona, mi esercito nel Suo stile. Però c’è un “ma” colossale. Quando pure io come io sentendomi io mortale della mia morte personale ne prendo coscienza e mi angoscio, oltre ad essere “autentico” che concludo? E poi perché sarei “autentico”; e chi se ne infischia della morte e si gode la vita e muore senza angoscia sarebbe inautentico? Perché? In nome di quale certificazione di autenticità?

Avesse detto Heidegger: essendo mortale e cosciente di esserlo, vivi all’estremo (in fondo, molto in fondo era, è l’essenzialità di Nietzsche, la vita è tragicamente mortale vivi al massimo, “superomizzati”, Nietzsche poi altera questa sensata concezione con l’eterno ritorno, se viviamo eternamente sparisce la tragedia!), invece si limita a dire: se ti angosci della tua morte personale sei “autentico”. Che me ne faccio di questa autenticità? No, non è la morte che ci rende autentici, è la vita che ci impone l’autenticità essendo noi insopprimibilmente individui. Non è la morte che ci rende individui, siamo individui, quindi mortali, siamo già individui. E la nostra autenticità sta in ogni atto essendo vincolata all’individualità. Se mai nel fare quel che sentiamo. E se un uomo non si angoscia della morte è autentico perché sente di non sentirla. Il timbro di autenticità è pericoloso, paradossalmente approva un solo tipo di uomo. Gravissimo pericolo. Lasciamo che l’uomo prenda la morte come la vita: ciascuno a suo modo, libero.

Aggiornato il 15 febbraio 2024 alle ore 11:53