“Assassinio nella cattedrale”: l’arcivescovo e il re

L’eterna lotta tra potere temporale e spirituale. Chi vincerà tra i due? Il terzo di sicuro, quello cioè che saprà unire indissolubilmente i due aspetti, in seno al dogma religioso della Parola (di Dio) rivelata. E ne vediamo da qualche tempo l’immensa forza, quando si parla di fondamentalismo islamico. Ma, un tempo, è esistito anche il fondamentalismo cristiano. Come quello narrato da Thomas Stearns Eliot, in Assassinio nella cattedrale, che riproduce il dramma dell’uccisione, avvenuta nel 1170, dell’arcivescovo di Canterbury Thomas Becket per mano di quattro cavalieri del Re Enrico II. Oggi, lo spettacolo omonimo va in scena al Teatro Quirino Vittorio Gassman di Roma fino al 18 febbraio. Vengono messi in scena gli ultimi giorni di vita dell’arcivescovo, di ritorno dalla sua permanenza-esilio in Francia, durata sette anni.

E di questa vacatio sono dense le atmosfere della regia di Guglielmo Ferro, che ha il suo epicentro nei due cori, organizzati in base al numero perfetto del Trio. Il primo al femminile, laico, e il secondo al maschile, interno alla comunità dei monaci. Le donne-prefiche, in particolare, hanno nella loro compostezza, originalità e cadenza del tempo poetico-musicale una forza irresistibile, in cui le parole si fanno dense, struggenti di dolore, sofferenza e privazione. Non altrettanto alla loro altezza è sembrata la recitazione di Moni Ovadia, l’arcivescovo, evidentemente più a suo agio nelle vesti di narratore e musico, che nel ruolo di colui che fa agire la tragedia di sé stesso.

La finalità del dramma trascorre tra il mistico e l’umano, quest’ultimo fin troppo concreto, opportunista e feroce nel raggiungimento dei propri fini terreni. Il tutto, ben chiarito dal coro parlato finale, in cui sono proprio i tre sicari (al posto dei quattro dell’opera originale) che illustrano al pubblico, parlando da un immaginario seggio di deputati e al contempo di imputati alla sbarra, il “perché” politico del loro atto infame. E molto ha a che vedere il recesso freudiano, per cui “è stato lui, l’arcivescovo, a cercare in ogni modo il suo martirio”, e sembrerebbe averlo fatto al culmine di una crisi mistica, dopo un immaginario incontro con la Morte stessa che lo prepara all’epilogo ineluttabile.

Per il pool di sicari, c’è però qualcosa di altro, oltre a questo impasto folle e mistico intriso nella personalità enigmatica di Becket, per cui l’agnello si sacrifica affinché tutto il suo gregge venga risparmiato. A questa visione sono loro, gli assassini, ad associarne un’altra, molto più temporale, in cui riecheggia proprio quel Santo Graal, mai trovato nella cristianità (a eccezione dell’italianissimo Papa re, durato fino alla Breccia di Porta Pia), per cui l’Arcivescovo, nominato dal re, avrebbe dovuto accettare in contemporanea “anche” la carica di cancelliere, facendo così di lui il più perfetto snodo tra l’Auctoritas del re e quella divina di Dio.

In precedenza, le atmosfere del tempo “buio” dell’assenza del capo della Chiesa di Cristo dalla sua cattedrale sono scandite dalla forza del coro femminile e dai versi brevi che, come tante pietre scagliate dal minuscolo Davide contro il Golia temporale, scalfiscono l’anima degli indifferenti, degli agnostici e dei senza Dio. Narrano di quei sudditi che patiscono la fame, hanno le mammelle aride per bocche innocenti e affamate, che subiscono le persecuzioni politiche di coloro che intendono vendicarsi della loro fede religiosa, apparentemente indomabile con il filo della spada.

Nella prima parte dello spettacolo, così come nell’opera di Eliot, si sviscerano le atmosfere interiori di un dibattito psicologico e morale, in cui assommano a impronte di colore denso le venature più propriamente politiche del discorso sulla tentazione, dell’ambizione terrena, che “opera con frode, con lusinga e con violenza”, esplicita proiezione della coscienza del protagonista. E qui le donne del coro simboleggiano la caducità del genere umano, sempre troppo debole rispetto all’illuminazione che viene loro dal martirio cristologico, recitando la lotta interiore che Becket stesso combatte dentro di sé. Cosicché, il coro instaura una forte correlazione con l’umore e i conflitti interni dell’arcivescovo santo, protettore e patrono in vita delle loro esistenze, mettendo in risalto il dualismo tra tempo ed eternità, carne e spirito, tra l’azione attraverso la sofferenza e poi la sofferenza verso l’azione, chiudendo così il cerchio del dramma di Eliot.

Aggiornato il 16 febbraio 2024 alle ore 10:53