La medicina orientale per il debito pubblico italiano

Una madre risponde al figliolo piagnucolante che le chiede un gelato: “Non posso comprartelo, abbiamo il secondo debito pubblico più grande al mondo”. Già, il debito elefantiaco dello Stato italiano è il tabù inviolabile di questo tempo storico. Sigmund Freud avrebbe fatto una fortuna economica a studiarlo. Ma è anche il mezzo per esorcizzare le ancestrali paure di un popolo affetto da un enorme deficit di autostima. È il modo elegante per cavarsi d’impaccio dalle pressioni dei postulanti. È il “Non possumus” approdato ai giorni nostri. È la foglia di fico dietro la quale il politico pavido nasconde la propria insipienza. È la catena con cui l’ordoliberismo teutonico tiene a bada il suo blandamente recalcitrante vassallo latino. È il peccato morale che implica la condanna e invoca il castigo. Giacché noi italiani siamo dei teatranti nati, se non facciamo i melodrammatici non siamo a nostro agio. D’altro canto, l’autocommiserazione è il miglior modo per non affaticarsi a cercare soluzioni. Il debito pubblico nostrano ammonta a 2132 miliardi di euro.

Qualcosa pari al 131,8 per cento del Pil, calcolato da Eurostat sui dati economici del 2017. Se non si riesce a ridurlo, come si possono contenerne gli effetti? Non certo con l’austerity. I dati parlano chiaro. Il loop nel quale il Paese si è avvitato dal Governo Monti in poi non consente alcuna previsione positiva in tal senso. Il debito si abbatte solo con la crescita economica, ma la crescita non c’è se lo Stato non la sostiene con misure espansive. Le politiche di spesa non si possono fare perché c’è il debito ed ecco servito il perfetto cortocircuito. Il debito è passato da 2mila miliardi di euro nel 2012 (Governo Monti) a 2311 miliardi di euro nel 2018 (Governo Gentiloni). Eppure, tutti i premier che si sono avvicendati nell’arco temporale considerato avevano assunto l’impegno di ridurlo. L’odierna classe dirigente avrà la forza d’imprimere la svolta rivoluzionaria che serve per uscire dal pantano in cui stiamo affondando? Domandiamoci, allora, non quanto ma a chi dobbiamo pagare i nostri debiti. Secondo le ultime stime della banca d’Affari Nomura, solo il 31,3 per cento del debito pubblico italiano è detenuto da investitori esteri.

Di questi il 5 per cento è nella titolarità di soggetti finanziari extra-europei. La cognizione di questo dato è decisiva perché sono questi ultimi a muovere il mercato e a innescare i tanto temuti attacchi speculativi. La restante quota è nelle mani dei cosiddetti creditori domestici tra i quali si annovera la Banca centrale europea che grazie alla misura del Quantitative easing ha acquistato, per il tramite della Banca d’Italia, 340 miliardi di euro dei nostri Titoli di Stato. Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, di recente ha annunciato la volontà di chiudere i rubinetti del Quantitative easing entro la fine dell’anno assicurando, però, che la Banca centrale continuerà a comprare i titoli in scadenza. È una notizia importante perché apre alla possibilità, che è nei poteri del decisore politico, di rendere strutturale il trattenimento presso la Bce di una porzione del debito pubblico di ogni Paese dell’eurozona, quindi anche dell’Italia. Ora, come l’esperienza giapponese ha insegnato al mondo, si può avere un debito pubblico colossale e allo stesso tempo essere la terza economia mondiale con un Pil nominale salito, nel 2017, a 5045 miliardi di dollari. Com’è possibile, sebbene i nipponici abbiano un rapporto debito/Pil al 240 per cento? Perché, oltre a un insieme di condizioni favorevoli al sistema produttivo, i loro conti pubblici si reggono su due pilastri fondamentali. Il primo: il Giappone mantiene la piena sovranità monetaria. Ciò consente alla sua Banca centrale di battere moneta. Il secondo: il debito nipponico è al 93 per cento detenuto da risparmiatori interni mentre la quota nelle mani degli investitori esterni è del 7 per cento. È per questa ragione che nel Paese del sol levante si temono i terremoti ma non gli attacchi della speculazione finanziaria. In Italia le cose sono più complicate. Non abbiamo più la sovranità monetaria che ci consentirebbe di stampare moneta alla bisogna.

In compenso, abbiamo un consistente stock di risparmio privato. Nel portafoglio delle imprese e delle famiglie italiane, che sono mediamente ben patrimonializzate, ci sono 4168 miliardi di euro dei quali circa 1300 investiti in depositi bancari e postali  a basso o negativo rendimento. Si tratta di una massa di miliardi che è quasi il doppio del debito pubblico italiano. In base alle linee guida del Mef il Tesoro sfrutta due canali, il Global Bond Program e il Medium Term Notes, per posizionarsi sui mercati finanziari esteri. Al momento, l’ammontare complessivo in formato “Global” è ridotto allo 0,24 per cento dei titoli in circolazione a fine novembre 2017. Più sostenuto, invece, il programma dei prestiti a medio termine, Medium Term Notes, che copre il 2 per cento del totale dei titoli in circolazione. Le indicazioni fornite dal ministro dell’Economia del Governo Gentiloni hanno mirato a un’implementazione dei due canali finanziari per i piazzamenti delle prossime emissioni nella previsione di attrarre nuovi investitori di alto profilo, maggiormente diversificati rispetto alla distribuzione geografica. Le operazioni di riacquisto dei titoli in circolazione, sebbene previste, sono state classificate come straordinarie e finalizzate a depotenziare il rischio della concentrazione dei rimborsi nel biennio 2019-2020.

Comunque, il ricorso a tale strumento resta subordinato al livello delle giacenze del Conto disponibilità e del Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato. Ora, non sarebbe rivoluzionario se una buona politica operasse per coinvolgere maggiormente il risparmio privato domestico nel processo di riassorbimento, sul mercato secondario, della quota di debito detenuto da mani straniere? In soldoni: perché non “giapponesizzare” il debito pubblico visto che i denari per farlo ci sono? In questa forma di “New Deal” finanziario anche la Pubblica Amministrazione potrebbe fare la sua parte. Non occorre un mago per capire che sottrarsi al giogo della speculazione finanziaria sui titoli di Stato è possibile. Basta soltanto rifarsi gli occhi a mandorla ed essere meno piagnoni.

Aggiornato il 21 giugno 2018 alle ore 19:44