La semplificazione che non c’è: cosa resta della riforma del fisco

La Camera dei deputati ha approvato con modifiche il disegno di legge delega per la riforma tributaria, che ora attende di passare al vaglio del Senato. Quel che si può sin d’ora osservare è che il disegno riformatore, già timido in partenza, esce ulteriormente ridimensionato all’esito del passaggio parlamentare, oltre a palesare insanabili contraddizioni. Il principio-cardine su cui il ddl era stato concepito era rappresentato dalla revisione della tassazione dei redditi delle persone, nella direzione dell’abbandono anche formale della progressività delle aliquote applicate al reddito complessivo, con assoggettamento dei redditi sul capitale (finanziario, immobiliare, d’impresa) ad una medesima aliquota proporzionale.

Ciò avrebbe significato accorpare nell’ambito di un’unica aliquota i diversi regimi sostitutivi oggi operanti, cosicché per alcuni di essi vi sarebbe stato un aggravio di tassazione, a meno di ipotizzare la fissazione dell’aliquota proporzionale a un livello pari a quello della più mite imposizione sostitutiva esistente. In particolare, i gruppi di pressione favorevoli al mantenimento delle attuali cedolari immobiliari e del regime forfettario applicabile al lavoro autonomo hanno avuto la meglio, e il risultato è che l’articolo 2 della delega approvata dalla Camera, anziché prevedere un’evoluzione del sistema verso un modello compiutamente duale, indica ora soltanto una generica revisione del trattamento fiscale dei redditi derivanti dal capitale, con applicazione di un prelievo proporzionale e regimi cedolari ai redditi di capitale, tenendo distinti i redditi del capitale mobiliare e di quello immobiliare.

La riforma, per superare l’attuale frammentazione dell’Irpef e i connessi problemi di equità, avrebbe potuto procedere in due direzioni: riassorbire i tanti regimi sostitutivi nell’ambito dell’Irpef progressiva, secondo un’ipotesi di lavoro ritenuta da subito impercorribile; oppure tentare almeno di razionalizzare il sistema accorpando e unificando i vari regimi sostitutivi esistenti nell’ambito appunto del modello “duale”. Alla fine, anche questa strada è stata abbandonata e verrà dunque mantenuto l’attuale assetto “plurale”, il che equivale a dire che la riforma dell’Irpef è morta ancor prima di nascere. Restano due notazioni conclusive: la prima riguarda la stridente contraddizione tra l’articolo 2 e i principi direttivi indicati all’articolo 1, secondo cui il legislatore delegato dovrà “preservare la progressività del sistema tributario e garantire il rispetto del principio di equità orizzontale”.

È evidente infatti che tali principi sono contraddetti dal mantenimento dei tanti regimi sostitutivi esistenti, che sottraggono numerosi redditi alla progressività e violano il principio di equità orizzontale, non solo rispetto ai redditi di lavoro e pensione tassati in modo progressivo ma anche tra di loro, data la diversità delle aliquote proporzionali di volta in volta operanti. La seconda è che, ironia della sorte, la delega fiscale che doveva segnare il superamento della frammentazione e l’unificazione dei regimi (ex pluribus unum) introduce invece un nuovo ulteriore regime sostitutivo, la cui aliquota dovrà essere stabilita in seguito, applicabile nei due periodi di imposta successivi all’uscita dal regime forfettario.

(*) Professore ordinario di Diritto tributario all’Università di Trieste

Aggiornato il 27 giugno 2022 alle ore 11:11