La gestione fallimentare del patrimonio immobiliare pubblico

Per Milton Friedman l’edilizia pubblica rientra nelle misure che fanno parte del «carrozzone ingannevole definito “sicurezza sociale”

Ritornano frequentemente alla ribalta le emergenze che riguardano gli immobili di Edilizia residenziale pubblica (Erp), soprattutto in occasione di eventi che destano clamore nell’opinione pubblica, come è successo ad esempio con il recente caso del sindaco di Avezzano, il quale, dopo il decesso dell’originario assegnatario, ha fatto murare l’ingresso di un alloggio dell’Ater in attesa della riassegnazione, o delle altrettanto recenti inchieste giornalistiche su alloggi popolari occupati abusivamente, come è successo per degli immobili comunali di Livorno, nel Comune di Roma e persino in un piccolo paese, Polistena, del provincia di Reggio Calabria, per tacere di tutti gli altri episodi riferiti.

Si tratta nella specie di un patrimonio immobiliare che è anche conosciuto come edilizia popolare, gestita a livello statale, regionale o locale, in quest’ultimo caso dai Comuni. Essa è stata regolamentata in Italia nel 1903, su impulso di Luigi Luzzatti, con la costituzione dell’Istituto case popolari, che aveva lo scopo di promuovere, realizzare e gestire l’edilizia pubblica finalizzata all’assegnazione di abitazioni ai meno abbienti, segnatamente in locazione a canoni calmierati. Il numero delle unità immobiliari fu poi incrementato di oltre 2 milioni con il Piano Fanfani (o Ina-Casa) negli anni Cinquanta. Attualmente secondo alcune stime, il numero delle case popolari è di circa 785mila, al cui interno vivono 2 milioni e 200mila persone circa, ma oltre 58mila risultano sfitte o inutilizzate, spesso non assegnate per mancata manutenzione, perché fatiscenti o per qualche ostacolo burocratico. Rilevante è anche il numero delle case assegnate in modo irregolare, quasi il 10 per cento, oppure occupate abusivamente, circa 30.670. Si registra comunque una discrepanza significativa tra una domanda alta (almeno 650mila richieste in lista d’attesa) e un’offerta insufficiente, cui si aggiunge il problema delle abitazioni assegnate in modo irregolare.

È una situazione che desta comprensibilmente scalpore e indignazione, soprattutto in un periodo in cui si parla di “emergenza abitativa”, giacché gli immobili Erp oltre a poter soddisfare un bisogno insoddisfatto di potenziali conduttori e ad allargare l’offerta, potrebbero, e dovrebbero, essere fonte di entrate di rilevante entità e incidere in modo considerevole sul bilancio degli Enti proprietari, sgravando peraltro l’erario e, di conseguenza, tutti i cittadini dai corrispondenti pesi fiscali.

Naturalmente, non era nelle intenzioni dei fautori dell’edilizia popolare creare siffatto stato di cose, posto che desideravano piuttosto perseguire uno scopo di solidarietà sociale, con l’assegnazione di alloggi a condizioni economiche particolarmente favorevoli a cittadini indigenti o che comunque si presumeva non fossero in grado di comprare una casa. Tuttavia, visti i risultati ottenuti in quasi centoventi anni, è necessario porsi il problema del perché i mezzi utilizzati non abbiano mai raggiunto gli obiettivi e si è piuttosto determinata una situazione che appare di gran lunga peggiore rispetto a quella che si voleva risolvere, come è emerso da una serie incredibile di fatti, che hanno messo in luce i fallimenti e i notevoli sprechi legati all’edilizia popolare.

Innanzitutto, vi è da considerare che non si scorge come lo Stato avrebbe potuto produrre immobili in modo più efficiente e a costi inferiori di quanto avrebbero potuto fare gli imprenditori privati, i quali, è evidente, dovendo sopportare costi e responsabilità per i propri errori, sarebbero stati più efficienti dell’apparato pubblico, che invece pianifica e realizza con rischi e spese dei contribuenti. Vi è inoltre da considerare che i progetti di edilizia residenziale pubblica raramente vengono apprestati in risposta a una domanda di alloggi proveniente dal mercato, e tale cosa, vista nella diversa ottica dei costruttori privati, li avrebbe scoraggiati dall’impegnarsi a fornire cose che la gente non avrebbe desiderato Aggiungasi che, nella maggior parte dei casi, la realizzazione degli interventi pubblici interessa terreni che i privati cittadini non sceglierebbero per costruire la loro casa.

A parte ciò, non può neppure sostenersi che sia compito dello stesso Stato produrre alloggi popolari e a prezzi accessibili per colmare una carenza, laddove quest’ultima è stata addirittura creata artificialmente con la legislazione restrittiva su imprese e costruzioni, la zonizzazione del territorio e il controllo degli affitti. In pratica con interventi statali che hanno finito per limitare, anche considerevolmente, l’offerta, il cui aumento al contrario era ed è l’unico modo per ridurre i prezzi e soddisfare il bisogno di case, anche per le fasce più povere della popolazione.

Volgendo poi lo sguardo su un diverso aspetto, può assumersi senza tema di smentita che la denunciata situazione sia pure la risultante di speciali condizioni politiche e istituzionali e della gestione dei beni affidata ad enti pubblici, che operano utilizzando il sistema burocratico, adoperando cioè un metodo di gestione degli affari che non può essere controllato tramite il calcolo economico. Il loro funzionamento è infatti rigidamente disciplinato dalla legislazione statale o regionale, l’organigramma è di nomina politica, il personale impiegato è assunto tramite selezione pubblica ed è tenuto a osservare norme, regolamenti e circolari dettagliatamente fissati dagli organi superiori, mentre le entrate comprendono in larga misura finanziamenti e trasferimenti dello Stato o delle Regioni, che provvedono inoltre ad appianare le perdite. Non esiste, ovviamente, alcuna connessione tra costi e ricavi e non ha valore monetario sul mercato il risultato della loro attività: “Si noti bene: non si afferma che una conduzione ben riuscita dei pubblici affari non ha alcun valore – ha chiarito Ludwig von Mises – ma che essa non ha alcun prezzo sul mercato, che il suo valore non può essere convertito in moneta in una transazione di mercato e, conseguentemente, non può essere espresso in termini monetari”.

È illusorio pensare di porre rimedio a tutto quanto prospettato nominando degli imprenditori o dei manager a capo degli Enti di cui trattasi, posto che il fatto di essere tali è unicamente il risultato della posizione che occupano nella struttura dell’economia di mercato, e non della loro personalità, per cui diventerebbero dei burocrati qualora assumessero il diverso ruolo. Il loro obiettivo non sarebbe pertanto più quello di realizzare profitti, rispondendo alle richieste dei consumatori e del mercato, e utilizzando il metodo che pone alla base dell’agire imprenditoriale o manageriale il calcolo dei profitti e delle perdite, ma quello di interpretare e applicare la legge e di osservare direttive, norme e regolamenti. Che resterebbero altresì fuori dai loro ambiti di intervento e non potrebbero neppure modificare per adeguarli alle esigenze richieste dalla gestione.

Altrettanto illusorio è ritenere che si possa intervenire riformando la Pubblica amministrazione, anche se molte cose andrebbero effettivamente riformate, per adattarla ai mutamenti sociali. In ogni caso, non potrebbe essere trasformata in un’impresa privata, sulla base di una ingenua e non corretta percezione della fondamentale differenza che intercorre tra quest’ultima e un’azienda pubblica, che deve affrontare e risolvere problemi sconosciuti alla prima e la cui gestione degli affari non può essere controllata dal calcolo dei profitti e delle perdite. In ipotesi residuerebbe, comunque, l’impotenza dei vertici della Pubblica amministrazione riformata nell’affrontare e risolvere i problemi della gestione, non potendo mai sapere se le iniziative prese in considerazione siano o meno vantaggiose o se la loro attuazione porterà a uno spreco di mezzi e di risorse. Né comunque possono utilizzare il conto dei profitti e delle perdite per operate una verifica della gestione, a differenza di quanto avviene nell’ impresa privata, che ha come fine il conseguimento del profitto e il cui successo o insuccesso è decretato dalle scelte dei consumatori, che si manifesta con un’eccedenza di ricavi rispetto ai costi.

Così stando le cose è indiscutibile che vada prontamente abbandonate qualsiasi idea di finanziare ancora progetti e programmi di edilizia residenziale pubblica, i quali finirebbero inevitabilmente per aggravare, anziché risolvere, i problemi esposti, oltre ad avere ripercussioni sul bilancio statale. Nel contempo, andrebbe dismesso il patrimonio immobiliare in mano allo Stato e a gli enti pubblici, con un’operazione che potrebbe interessare anche gli immobili di proprietà del Ministero della Difesa (le caserme ad esempio), i 43mila gestiti dall’Agenzia del demanio e quelli gestiti dai Comuni soggetti a vincolo urbanistico. L’opera andrebbe completata con la revisione, la semplificazione e l’alleggerimento della normativa urbanistica e di quella edilizia e con la liberalizzazione degli affitti sia a uso abitativo sia ad uso diverso, per i quali dovrebbe essere altresì approntata una fiscalità ridotta con il regime della cedolare secca. La tutela delle proprietà private e dei proprietari andrebbe infine assicurata con ulteriori misure di contrasto a ogni forma di abuso.

Aggiornato il 28 marzo 2024 alle ore 09:49