Lo sviluppo di Passera è minestra riscaldata

Proprio non ce la fanno a stupirci i nostri tecnici e professori. Ci aspettavamo soluzioni innovative che i politici - per incompetenza o per la ricerca del consenso di breve termine - non si sono dimostrati all'altezza di concepire.

Ma c'è qualcuno che ricordi un provvedimento per la crescita adottato da questo governo che non emetta una stanca eco pseudo-assistenzialista? Di tal fatta si annunciano anche le misure contenute nell'ennesimo pacchetto sviluppo - due decreti in tutto - che mercoledi il ministro Corrado Passera porterà in Cdm. Magari avrà miglior fortuna dei suoi predecessori, ma le leve per stimolare la crescita che i nostri governi sanno concepire sono sempre le stesse, e in passato non hanno mai funzionato: incentivi e infrastrutture.

La prima minestra riscaldata è il riordino degli incentivi esistenti, la loro confluenza in un fondo unico che dovrebbe garantire alle imprese 600 milioni di euro in un anno tra finanziamenti agevolati e contributi in conto capitale. Siccome risorse per nuovi incentivi non ce ne sono, si riciclano i vecchi, invece di tagliarli del tutto o in parte in favore di un cospicuo - se non totale - abbattimento dell'Irap. E del riordino degli incentivi alle imprese non doveva occuparsi Giavazzi, appositamente nominato consulente solo poche settimane fa? Seguiranno altri interventi, ha promesso Passera, quando saranno disponibili maggiori risorse, provenienti per esempio dalla spending review.

Peccato che i tagli alla spesa ancora non si vedono e i 4-5 miliardi di risparmi previsti risultano già variamente impiegati: per evitare l'aumento dell'Iva a ottobre; per finanziare la ricostruzione post-terremoto in Emilia; e ora anche per nuovi incentivi alle imprese. La seconda minestra riscaldata è quella delle infrastrutture. L'intenzione, lodevole, del ministro è quella di sbloccare la realizzazione di impianti energetici come centrali, gasdotti e rigassificatori, per un totale di circa 10 miliardi di investimenti privati, accelerando e soprattutto rendendo certo il procedimento autorizzativo da parte dei vari enti locali, con la possibilità del governo di "forzare" la decisione definitiva. Tuttavia, tentativi del genere, per questa o altre tipologie di opere, fino ad oggi hanno avuto poco successo. 

In arrivo, inoltre, i decreti attuativi per lo sblocco, sotto il rigido controllo della Ragioneria dello Stato, di almeno 20-30 miliardi di debiti della Pa nei confronti delle imprese, una vera boccata d'ossigeno. 

Ma ammesso e non concesso che le imprese si fidino dello stato, entrando in questo nuovo tunnel burocratico per ottenere la certificazione del credito e/o la compensazione crediti-debiti fiscali, previa rinuncia ad ottenere un titolo esecutivo in tribunale, i termini temporali dell'operazione faranno slittare i primi effetti a non prima di un anno, se tutto funziona come previsto. Nelle attuali ristrettezze è quanto può passare il convento. 

Per questo Monti è concentrato su ciò che si può strappare a Bruxelles (e a Berlino). Il terremoto, i cui danni economici sono ingenti, può rivelarsi il pretesto ideale per chiedere di allentare i vincoli di bilancio europei, appellandosi alle «circostanze eccezionali» previste dallo stesso fiscal compact. Si spera, poi, che la cancelliera Merkel ceda qualcosa su golden rule (lo scorporo della spesa per investimenti "produttivi" dal calcolo del deficit) e project-bond infrastrutturali, o che dalla Tobin tax possano arrivare fondi europei "freschi". 

Ma siamo sempre lì: i nostri governi non sanno immaginare nient'altro che incentivi e infrastrutture per stimolare la crescita - politiche keynesiane nella migliore delle ipotesi, assistenzialismo appena mascherato nella peggiore - mentre non prendono nemmeno in considerazione di invertire la rotta della nostra politica fiscale, alterandone le due grandezze fondamentali: spesa pubblica e pressione fiscale. 

In Europa il governo Monti si prepara a proporre, per l'Italia e gli altri paesi eurodeboli, la stessa ricetta che ha così ben funzionato per il nostro Mezzogiorno. Nella migliore delle ipotesi, di tenuta dell'euro, diventeremo il Mezzogiorno depresso e assistito d'Europa.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:37