Sui tagli anche i partiti si giocano tutto

Se sui tagli alla spesa Mario Monti si gioca un’altra grossa fetta della sua credibilità, interna ed europea, il tema è di quelli decisivi anche per i partiti che in parlamento saranno chiamati ad esaminare in concreto, ed infine ad approvare, i provvedimenti governativi. Per evitare un flop come sulla riforma del lavoro, uscita già annacquata dal confronto con le parti sociali, il premier dovrà agire rapidamente, scavalcando le resistenze battagliere di sindacati, governatori, enti locali e corporazioni – che criticano i “tagli lineari” e paventano il taglio dei servizi, ma il cui sogno inconfessabile è: nessun taglio – e coinvolgendo prima possibile il parlamento. 

Anche perché il tempo stringe: in Europa chiedono conferme e i brutti dati Istat sui conti pubblici mostrano i danni (solo i primi) di un consolidamento fiscale perseguito attraverso aumenti di tasse e taglio delle spese in conto capitale. Una rotta che è urgente invertire intervenendo, invece, sulla spesa corrente, come suggerisce da sempre la Bce. A differenza delle settimane in cui fu trattata la riforma del lavoro, nelle quali tra il calo dello spread e l’imminenza delle elezioni amministrative il governo aveva perso la sua presa sui partiti, oggi Monti è politicamente più forte, non essendo tornato a mani vuote dal Consiglio Ue di Bruxelles (o essendo riuscito a farlo credere), e ormai tramontata l’ipotesi di elezioni anticipate ad ottobre.

Anche nei partiti però si agitano spinte fortemente contrarie ai tagli alla spesa pubblica. Ovviamente nessuno più osa disconoscere che ci sia bisogno di fermare gli sprechi e rendere più efficiente la macchina dello Stato, ma per lo più si tratta di concessioni retoriche dietro cui si nasconde un’opposizione viscerale ad una riduzione strutturale della spesa. Quel che è certo è che dal comportamento che terranno nel merito dei tagli, nei confronti delle proteste che susciteranno, e più in generale sulla revisione della spesa, dipenderà molto del profilo politico dei partiti nel prossimo futuro, la loro credibilità agli occhi dei mercati, dei partner europei e delle istituzioni internazionali. Insomma, la loro idoneità a guidare il Paese nel post-Monti.

Per farla breve: chi si oppone ai tagli oggi, gridando demagogicamente alla “macelleria sociale” con il solito armamentario retorico, oppure più furbescamente cercando di sabotarli in silenzio nelle aule parlamentari, non offre alcuna garanzia che una volta al governo proseguirà sulla strada della riduzione della spesa pubblica e si rivela quindi “unfit” a guidare il paese. Nulla di buono fa presagire il Pd. D’accordo non aumentare l’Iva, d’accordo i risparmi strutturali, ma non toccare le «prestazioni sociali», cioè sanità, istruzione e servizi sociali. Va bene risparmiare sul costo della siringa, ma non sull’iniezione, avverte Bersani, invitando il governo al confronto per evitare «errori». 

Magari in Parlamento il Pd assumerà una posizione più realistica, ma per ora fa il solito gioco di sponda con i sindacati. Di gran lunga più avvilente il Pdl. Da tre giorni non si parla d’altro che di spending review ma Alfano tace e le voci contrastanti confermano lo sfaldamento in atto del partito. Dal vuoto di linea ad emergere sono le voci più corporative, assistenzialiste e campanilistiche, quelle dei parlamentari che difendono le loro clientele di riferimento e quelle allarmate dei governatori e dei sindaci. 

Mentre i cittadini, che siano a favore o contro, concentrano la loro attenzione sui tagli alla spesa, il Pdl sembra appassionarsi di più al cda Rai o alla reintroduzione delle preferenze, temi certamente non in cima alle preoccupazioni degli italiani. Lo stesso errore commesso mesi fa sulla riforma del lavoro: anziché incalzare il governo su due temi, come il lavoro e la spesa pubblica, su cui il Pd può essere messo in difficoltà, si ritrae nel proprio caos interno.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:35