Ben vengano i tagli alle retribuzioni dei presidenti delle Camere e dei parlamentari, naturalmente, e con essi il taglio agli sprechi, sperando che questa volta non si tratti solo di parole ma si passi ai fatti. Non possono che destare preoccupazione, tuttavia, i segni di una certa deriva “impiegatizia” del lavoro dei parlamentari che ci sembra di cogliere nelle parole dei neo presidenti Boldrini e Grasso, che in alcune loro uscite mostrano anche di non aver ben inquadrato la natura della loro carica istituzionale. Fin dai loro discorsi di insediamento hanno mostrato intenti “programmatici” più appropriati a un ministro che non al presidente di un'assemblea elettiva. Propositi confermati in un'intervista al settimanale “L'Espresso” dal presidente del Senato Grasso: «Giustizia e cambiamento sono le linee guida del mio lavoro.

Corruzione, falso in bilancio, voto di scambio e nuove forme di riciclaggio: sono queste le priorità, per tutti». Anche l'intenzione proclamata dalla presidente Boldrini di «stare il più possibile fuori dal Palazzo e farmi carico dei problemi dei cittadini» non lascia presagire nulla di buono: Camera e Senato hanno bisogno non di presidenti in gita (o campagna?) permanente, non di promoter di se stessi, ma di manager il più possibile presenti, e capaci di farle funzionare. Il solo parlare di “stipendio” è scorretto, fuorviante. Gli emolumenti di deputati e senatori, così come dei loro presidenti, sono costituiti infatti di più voci: indennità parlamentare, ma anche diaria e rimborso delle spese per l'esercizio del mandato. A cui si aggiungono varie indennità di carica e di funzione a seconda che ricoprano anche i ruoli di presidente, vicepresidente, questore, segretario d'aula, capogruppo, presidente e vicepresidente di commissioni. Dunque, quando l'altra sera, in tv a “Ballarò”, Boldrini e Grasso hanno annunciato di essersi «tagliati lo stipendio» del 30%, hanno in qualche modo disinformato, se non ingannato i telespettatori. Il taglio finora deciso, infatti, riguarda le loro indennità d'ufficio, cioè una parte “accessoria” del loro “stipendio”.

Il taglio del 30% della sola indennità da presidenti delle Camere corrisponde infatti a circa il 7% di quanto percepiscono ogni mese. Se gli emolumenti dei parlamentari non si chiamano «stipendio» un motivo c'è. Perché il loro, piaccia o meno, non è un lavoro, com'è invece quello di un impiegato o di un operaio. La loro è una funzione. E si parla di «indennità» proprio perché si presuppone che l'esercizio di tale funzione sottragga loro del tempo all'attività lavorativa e, quindi, dei guadagni. La loro funzione è quella di rappresentare i cittadini in Parlamento e non può essere misurata con il numero di ore lavorate, a cui corrisponde uno “stipendio”. Viene valutata politicamente dagli elettori. Un altro segno della deriva “impiegatizia” sta in un'altra uscita piuttosto demagogica dei due neo presidenti delle Camere, che hanno più volte dichiarato di voler far lavorare deputati e senatori per 5 giorni su 7. «Una più alta produttività, le ore di lavoro settimanali devono passare da 48 a 96, lavorando dal lunedì al venerdì, e si potrebbe fare anche di più», è l'impegno assunto dalla presidente Boldrini. Ma è assurdo misurare la produttività del Parlamento con il monte ore lavorate, come si farebbe per un impiegato o un operaio.

Innanzitutto, Boldrini e Grasso sembrano ignorare che se il Parlamento lavora per più ore, i costi di struttura non diminuiscono, ma aumentano, anche considerevolmente. Basti pensare alle utenze e alle spese per il personale che assiste i parlamentari nel loro lavoro, dai consulenti legislativi ai commessi. Ore e ore di straordinari. Altro che 5 giorni su 7. Il Parlamento dovrebbe lavorare/legiferare meno e meglio, laddove meglio significa innanzitutto in tempi più rapidi, che presupporrebbero modifiche costituzionali e dei regolamenti parlamentari a cui da sempre si oppongono i custodi di una concezione parlamentarista e assemblearista della democrazia rappresentativa. Alla base di certe uscite demagogiche, purtroppo, c'è una malintesa idea, di tipo appunto “impiegatizio”, dei costi della politica. E' senz'altro doveroso ridurre, riallineandoli agli standard degli altri maggiori paesi europei, gli emolumenti dei parlamentari, dimezzare il numero di deputati e senatori, così come dei membri di tutte le assemblee legislative, e magari anche sostituire il Senato con una Camera delle Regioni. Ma i veri costi della politica, quelli rilevanti come dimensioni rispetto all'intera spesa pubblica, quelli che tarpano le ali all'economia del nostro paese, sono quelli che mantengono una casta improduttiva e parassitaria molto più ampia dei mille parlamentari, rendendo la vita quasi impossibile, ormai, ai ceti produttivi. I veri costi della politica stanno nell'incapacità delle istituzioni di prendere decisioni in tempi utili.

Stanno nella sovraproduzione normativa, e in una macchina statale ipertrofica – che necessita di sempre maggiori risorse non già per funzionare, ma solo per la propria sopravvivenza – che aggravano l'oppressione burocratica e fiscale. Stanno nelle società partecipate che gestiscono i servizi pubblici locali (acqua compresa!), imbottite di politici, loro parenti, amici degli amici eccetera. Stanno nella malagestione della sanità pubblica, per cui la stessa siringa può costare in una regione dieci volte tanto che in un'altra. Stanno in tutti i fondi e sussidi elargiti dai politici alle loro clientele nelle forme più disparate, e sempre con la scusa di favorire lo sviluppo. Ed è qui la contraddizione di fondo di movimenti come quello di Grillo: è contro i partiti, vuole estirpare la corruzione, la malapolitica, ma allo stesso tempo chiede più Stato, più “pubblico”, in tutti gli ambiti (acqua pubblica!), il che inevitabilmente significa più potere ai politici, ai partiti, come in una sorta di sindrome di Stoccolma.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:42