Il Papato e l’Impero, riflessioni sulla guerra

Chi scrive è un anticlericale, in quanto non aderisce all’ideologia di Aurelio Agostino di Tagaste, che contrappone la città di Dio alla città degli esseri umani, rilevando più di essere restato un manicheo che di essere divenuto un buon cristiano. Detto questo, non discute la dimensione spirituale del digiuno, della veglia e dell’adorazione che il Vescovo di Roma Francesco ha condotto per ottenere il miracolo di fermare la guerra in Siria ed evitare una sua estensione annunciata, ma appunto in quanto crede che la città di Dio sia la stessa degli esseri umani, che se riuscissero a comportarsi in modo divino potrebbero essere dèi per grazia, se non per natura, come insegnano i Padri dell’esicasmo, non ritiene blasfemo analizzarne il senso politico.

Del resto, lo stesso Aurelio Agostino intese rispondere, fornendo quell’ideologia clericale, alla crisi dell’Impero romano in Occidente, culminata nella catastrofe cosmica, così venne sentita allora, del sacco di Roma da parte dei barbari, e non a caso Papa Francesco ha voluto svolgere il rito davanti all’icona della Madre di Dio “salus populi romani”. Ernesto Galli della Loggia, laicamente, dalle colonne del Corriere della Sera di domenica, contesta che sempre le guerre non risolvano nulla, e cita le guerre di liberazione. Ricordo l’esclamazione di Randolfo Pacciardi, amico di mio padre ed entrambi interventisti, a casa nostra, a proposito del monito pontificio contro la “inutile strage” all’epoca della prima guerra mondiale: “Inutile un corno, volevamo Trento e Trieste e ce le siamo prese!”.

Ricordo però anche mio padre, che da ufficiale si fece tutte le guerre, da quella alla guerra di liberazione, quindi dal 1915 al 1945, e figlio di uno che compì sedici anni in Sicilia come volontario di Garibaldi nel 1860, e fece tutte le campagne successive sino all’ingresso a Roma nel 1870, rimproverarmi quando, da bambino, giocavo con troppo entusiasmo alla guerra perché la guerra può sembrare bella solo a chi non l’ha mai combattuta. Però la questione politica resta quella posta da Ernesto Galli della Loggia: che la guerra è un duro strumento politico e può non essere usato solo quando se ne possa adoprare un altro.

I romani d’un tempo dissero, naturalmente in latino, che l’ordinamento giuridico serve a evitare che i cittadini vengano alle armi, per risolvere le questioni da sé; e lo dimostrarono imponendo la “pax romana” nel Mediterraneo, dopo una lunga sequela di guerre dalla fondazione ad Augusto. Egli poté, alla fine, permettersi il lusso d’inaugurare l’Ara Pacis, che resta sua con buona pace di Mayer. Questa logica rispuntò in epoca moderna in Alexander Hamilton e negli altri autori federalisti, quando vollero trasformare gli Stati Uniti in uno Stato per evitare guerre tra le ex colonie liberatesi dalla sudditanza britannica; e nei federalisti europei, che dal 1800 propugnano gli Stati Uniti d’Europa. Per il momento il risultato è l’Unione europea, e la bella bandiera a dodici stelle che sventola sugli edifici pubblici.

Quasi in contemporanea con la veglia del Vescovo di Roma, i ministri degli esteri degli Stati membri, convocati dall’Alto Rappresentante dell’Unione, la baronessa Catherine Ashton, hanno concordato una solenne condanna dell’uso di armi chimiche da parte del governo di Damasco e promesso di allinearsi alla pronuncia del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Questa ramanzina non preoccuperà più di tanto il governo di Damasco, in quanto la povera Ashton, in teoria non solo capo della diplomazia europea ma di un sistema militare con uno Stato maggiore, non ne può disporre per i motivi istituzionali esposti in un precedente intervento a cui si rinvia.

Tornando all’America settentrionale, i presidenti degli Stati Uniti sono stati, talora, così convinti delle ragioni di Hamilton dal tentare di applicarle alla comunità internazionale: come Woodrow Wilson quando propose la Società delle Nazioni alla Conferenza di Versailles dopo la prima guerra mondiale, poi smentito clamorosamente dal Congresso che impedì agli Stati Uniti di farne parte (del resto la Società dimostrò ciò che fu da come riuscì ad evitare la seconda guerra mondiale e lucidamente previde, tra le due guerre, Luigi Einaudi, che per questo propose una più concreta federazione europea); come Franklin D. Roosevelt alla fine della seconda, con l’istituzione dell’attuale Organizzazione delle Nazioni Unite, teoricamente dotata di una propria forza d’intervento con i “caschi blu”, ma la cui portata dire che sia alquanto limitata significa dire troppo.

Un Consiglio di sicurezza paralizzato dai veti, come nel caso della Siria, rileva come l’organizzazione, se non vuole fare la fine della Società delle Nazioni, richieda una riforma profonda. L’Unione europea, soprattutto la baronessa Ashton, è bene si ponga la questione di una presenza dell’Unione europea in quanto tale nel Consiglio di sicurezza, e non attraverso Stati membri quali la Gran Bretagna e la Francia, che si credono ancora portatori di loro interessi e non dell’Unione. Nella realtà, francesi e britannici sono patetici, ricordano i principi italiani del tardo Rinascimento che combattevano per i diritti di precedenza dei loro ambasciatori alle corti dei Re di Francia o di Spagna, che intanto stavano pappandosi la Penisola.

Se il presidente degli Stati Uniti dell’America settentrionale lo vuole, e il Congresso lo sostiene anche se egli, costituzionalmente, potrebbe agire a prescinderne, l’estensione del conflitto siriano è inevitabile. Che poi la scelta sia saggia, è tutto da vedere. È certamente vero che la dittatura del partito Ba’th, fino a poco fa molto più illuminata, oggi presieduto da Bashar al-Assad, ha probabilmente usato armi chimiche contro le popolazioni ribelli, ma è altrettanto vero che stragi di civili ed esecuzioni sommarie di prigionieri sono la prassi degli oppositori e le componenti fondamentaliste ed islamiste sono sempre più forti tra gli insorti. A farne le spese saranno molti cristiani. Quindi, più che il rischio di cadere dalla padella nella brace c’è quasi una certezza.

In poche parole, si stanno sfidando le reazioni russe e iraniane per riuscire ad ottenere, molto probabilmente, un regime fondamentalista e antioccidentale in più. Per questo molti pensano non resti che sperare nel miracolo. Papa Francesco lo ha capito e intascherà un rilevantissimo successo politico nella città degli esseri umani. La Santa Sede ha un seggio d’osservatore presso l’Onu, ma osserva e non ne fa parte; ha una diplomazia attivissima verso l’Unione europea ma non ne fa parte. Il Papato non è l’Impero, può trattare con esso ma se ne tiene fuori, e quando l’Impero va incontro al disastro per le sue debolezze, tira giù dagli scaffali della biblioteca vaticana Aurelio Agostino, presenta l’alternativa e offre la supplenza.

Se la mano di Dio fermerà le armi, non vedo chi non possa darne merito al Vescovo di Roma; se la guerra si estende ed è il disastro, non vedo chi non possa vedere nella Santa Sede l’unica autorità universale che mise in gioco se stessa per impedirlo; se un intervento chirurgico nella Siria riesce a far crollare la dittatura del partito Ba’th presieduto da Bashar al-Assad e consegna il Paese a un regime fondamentalista antioccidentale, l’unica autorità universale che ha cercato di evitarlo resta quella. Se Bashar al-Assad la sfangasse, l’unica autorità occidentale che avrebbe le carte in regola per trattare con lui sarebbe la Santa Sede. Occorre solo riconoscere che i gesuiti hanno una marcia in più.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:37