Berlinguer raccontato da Veltroni (e Craxi)

Onestamente non abbiamo ancora visto il film di Walter Veltroni dedicato ad Enrico Berlinguer, ma ne conosciamo l’assunto. Non solo, ma conosciamo il trasporto filiale, affettuoso e devoto che il politico Veltroni - ottimo uomo di cinema, fin da adolescente - ha nei confronti del leader comunista scomparso vent’anni fa.

Probabilmente siamo di fronte ad un effetto nostalgia sullo sfondo di una feconda malinconia - la malinconia è sempre un orto nascosto, un terreno fertile che cresce in noi - che avvolge la figura di Berlinguer. E i dibattiti che ne derivano. Berlinguer è l’uomo del compromesso storico, il leader del più grande partito comunista occidentale, colui il quale indicò l’eurocomunismo, non volle la salvezza di Moro rapito dalle Br, fu il teorico della terza via, un comunista che tentò di sciogliere qualche vincolo dall’abbraccio politico, storico, finanziario, dell’orso sovietico allora incarnato da Breznev.

La nostalgia veltroniana e di molti ex Pci in buona fede nasce, a nostro parere, da ciò che poteva essere e non è stato, da ciò che quella politica dei ‘70 aveva indicato e poi ne seguì un sentiero rovesciato, da tutto quello che l’abbandono di un processo timidamente e contradditoriamente revisionista produsse: un fallimento, la sconfitta. Irreparabile. Sulla strada di Berlinguer si pose Bettino Craxi. Non perché fosse invidioso del compromesso fra Dc e Pci, che pure non era uno scherzetto di potere invasivo e soffocante, ma perché ne ravvedeva fin da subito i limiti, quelli di un Pci che non lasciava la sua vera natura, la sua stessa raison d’etre, ovvero il marxismo-leninismo, ovvero la matrice rivoluzionaria la cui stella brillava dal Cremlino e dalla tomba di un mummificato Lenin. Mummificato dalla storia, innanzitutto.

Certo, quando Berlinguer parlò nel 1977 a Mosca nel 60o anniversario della Rivoluzione Bolscevica usò termini come pluralismo e democrazia. Durò sei minuti l'intervento e ad ascoltarlo c’era la nomenklatura incartapecorita del Pcus, il dittatore tedesco dell’Est Honeker, il dittatore comunista filosovietico Jaruscelskj della Polonia che incarcerava Solidarnosc, il dittatore ceco Husak che aveva imprigionato Havel, Dubeck e quelli della primavera di Praga, i dittatori coreani del nord e via totalizzando. I dissidenti erano o in galera nei gulag raccontati da Solzenicyn, oppure esuli: artisti, letterati, poeti, pittori, scienziati. Proprio allora il Psi di Craxi con Ripa di Meana, alla Biennale di Venezia, realizzò la Biennale del Dissenso, un atto di rottura audace, talmente coraggioso che il Pci lo condannò severamente, che la sinistra Dc boicottò e che la nostra intellighenzia, schierata ed egemonizzata dal Pci, snobbò.

Nasce a sinistra l’odio politico per Craxi, l’insofferenza per la sua politica che riacquistava la tradizione socialista e liberale dei Rosselli, il lascito di Turati con un orizzonte riformista. Da quell’orizzonte Berlinguer col suo il Pci è sempre stato lontano, ne disprezzava la parola impronunciabile, guai a chi attribuisse al Pci qualcosa di riformista. Loro erano rivoluzionari, come la casa madre Urss, la socialdemocrazia era al servizio del neocapitalismo, Craxi un avventuriero animato dall’anticomunismo viscerale. Il caso Moro e la sua tragica fine, le Br e il loro album di famiglia, la fermezza di Berlinguer e di Zaccagnini rispetto ai tentativi di Craxi, con a fianco Saragat, Pannella, Sciascia per salvare la vita dello statista Dc. Infine il cadavere di Moro nella Renault fu la prima pietra sul Pci, che pure appoggiava dall’esterno il Governo di larghe intese di Andreotti.

Inizia la parabola discendente di un Pci che rifiuta prima lo Sme monetario europeo, poi ripudia sdegnoso qualsiasi approdo socialista e democratico, favorisce con la scala mobile Lama/Agnelli l’esplosione del debito pubblico con la famosa rissa fra Berlinguer e Amendola, si oppone ai missili di difesa che invece Craxi e il cancelliere Spd Schmidt chiedono, non si accorgono della marcia dei 40mila a Torino dove invece Berlinguer va a difendere gli operai. Nasce la leggenda della conventio ad excludendum del Pci, che al contrario si ritira, che rifiuta, che abbandona la “sua” politica originaria (che riprendeva, con Berlinguer, la via togliattiana). Lo scettro cade dalle mani del Pci, che perde milioni di voti, nel momento stesso in cui il Paese, percorso dal terrorismo di massa, ha bisogno di stabilità, governabilità, modernizzazione. È Craxi e il Psi rinnovato che percorre quella strada, che propone la Grande Riforma dello Stato, che lavora per una stabilità che veda al centro un Psi che la garantisca. Pensare al Paese, ai meriti e ai bisogni, alla difesa del ceto medio; il Governo Craxi, il decreto vittorioso sulla scala mobile, la ripresa dell’economia, il made in Italy, il rispetto internazionale.

Berlinguer muore fra una generale commozione di popolo. Mai il suo Pci ha abbandonato il compromesso storico imboccando la via della questione morale, della diversità, dell’azionistica predica dei migliori, degli eletti. “Craxi ci invita ad essere della stessa famiglia socialdemocratica - dirà lo staff berlingueriano - ma noi apparteniamo a un’altra famiglia: il Pci, l’unico partito pulito, efficiente, rispettoso. Noi siamo diversi”.

Diversi? Adesso, trent’anni dopo l’ex Pci è entrato nel Partito Socialista Europeo. Obbiettivo che i miglioristi guidati da Napolitano invocavano, elogiando Craxi tanti anni prima e finendo ai margini. Ci voleva un Renzi, che forse neppure è esperto di tutti questi travagli, per tentare di riprendere lo scettro caduto, a invocare stabilità, governabilità e la grande riforma dello Stato. Trent’anni dopo Craxi!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:20