Spesa pubblica e  riforme inesistenti

Nonostante le inaffidabili smentite del ministro Pier Carlo Padoan, il catastrofico andamento di un’economia in fondo al tunnel fa ritenere inevitabile un’autunnale manovra lacrime a sangue. Ciò soprattutto in assenza di qualunque taglio strutturale della spesa pubblica, che tanto poco consenso fa. A questo proposito sarebbe il caso di ricordare che, molto prima di diventare premier, Matteo Renzi aveva più volte parlato della necessità di intervenire nel capitolo strategico delle pensioni. Ma si sa, quando non si hanno ancora responsabilità di Governo è molto facile spostare bandierine in un’immaginaria scacchiera di risanamento finanziario.

I guai cominciano quando, affamati di consenso, ci si rende conto che togliere appena un centesimo a qualcuno rappresenterebbe un prezzo politico troppo elevato da pagare. Tant’è vero che lo stesso Renzi, una volta raggiunta l’agognata stanza dei bottoni, ha rapidamente virato sull’argomento, promettendo miracolose perequazioni dei trattamenti più bassi a danni dei pensionati più ricchi. Tuttavia, al di là delle chiacchiere, nulla è stato neppure abbozzato per affrontare la spinosissima questione. Eppure, conti alla mano, l’Italia continua a spendere in pensioni una cifra insostenibile che, complice la crisi economica, ha superato il 16 per cento del Pil, ossia oltre il 30 per cento della spesa pubblica complessiva.

A tal proposito l’ex sottosegretario tecnico Polillo disse, quando era ancora in carica il Governo Monti, che malgrado la riforma Fornero a regime l’attuale tendenza, in assenza di ulteriori e drastici provvedimenti, avrebbe prima o poi mandato in bancarotta l’intero sistema previdenziale. Ebbene, mi sembra evidente che un Paese che non cresce (le stime per il 2014 si stanno attestando in uno striminzito + 0,2 per cento, contro il + 0,8 per cento previsto dal Governo), affetto da una progressiva perdita di competitività, non possa permettersi di spendere in pensioni qualcosa come 5 punti di Pil in più rispetto alla tanto demonizzata Germania. Di fronte a così macroscopici squilibri o si interviene, riducendo il gap negativo sul fronte dei costi imposti da una mano pubblica a dir poco feroce sul piano della fiscalità allargata, o si continua a raccontare la frottola di un famigerato rigorismo con cui il Nord dell’Europa ci impedirebbe di rilanciare l’economia.

Capisco perfettamente che, all’interno di un quadro politico –all’avanguardia sotto questo profilo – nel quale il consenso è funzione diretta della spesa pubblica, sia quasi proibitivo occuparsi in termini razionali di simili questioni, soprattutto quando esse sono basate su privilegi già in essere. Tuttavia, se in prospettiva vogliamo evitare una catastrofica uscita dell’euro, con una sostanziale ristrutturazione del debito pubblico attraverso la scorciatoia dell’inflazione a due e più cifre, il tema di un regime previdenziale che ci costa un occhio della testa prima o poi si dovrà affrontare. Ma che sia Matteo Renzi a farlo, quando gran parte della base elettorale del suo partito invoca tutt’altre misure, risulta difficile crederlo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:22