Il nodo case occupate e   lavori socialmente utili

Con buona pace del ministro Lupi il problema delle case occupate, che diventa emergenza solo perché il Corriere della Sera si accorge dopo anni di quanto avviene nei quartieri popolari di Milano ma che a Roma e nelle altre città metropolitane è una ferita aperta da anni, non si risolve imponendo ai prefetti di staccare acqua e luce alle famiglie abusive. Perché la maggior parte degli occupanti è formata da stranieri abituati a supplire alla carenza di servizi e perché l’unica alternativa che hanno all’occupazione abusiva è quella di finire nella strada e tornare a stabilirsi nei campi clandestini da dove sono venuti. Lo stesso vale per gli italiani che occupano abusivamente le case popolari e che lo fanno non per questioni ideologiche, ma per quella condizione di indigenza e di difficoltà che non offre loro altra alternativa oltre quella dell’azione illegale sulle case sfitte o temporaneamente vuote.

Nel secondo dopoguerra il problema della casa venne risolto con un grande programma di edilizia popolare che diede una risposta efficace all’emergenza provocata dalle distruzioni belliche e dal progressivo inurbanamento delle popolazioni agricole. Ma le condizioni odierne sono totalmente diverse da quelle degli anni ‘50 e ‘60. Non solo perché allora il problema della casa riguardava solo italiani che, pur essendo di diverse condizioni sociali, avevano più facilità ad integrarsi nelle grandi città. Non solo perché in quegli anni il Paese si trovava in una fase di miracolo economico che prometteva crescita continua, mentre oggi la fase è segnata da anni di crisi e di recessione. Ma anche e soprattutto perché la mancanza di risorse s’intreccia con l’impossibilità di programmare qualsiasi aumento di consumo del territorio. Ed i due fattori rendono impossibile qualsiasi rilancio degli antichi programmi di edilizia popolare, se si escludono le ristrutturazioni delle periferie impossibili da realizzare per mancanza di stanziamenti adeguati.

E allora? La risposta più semplicistica al problema è quella che si appella alla legge e chiede che venga applicata senza deroghe di sorta. Ma non è con l’esercito, come chiede la Lega, o con gli sfratti a raffica compiuti dalla forza pubblica, come chiedono i fautori della legalità ottusa, che si può risolvere una questione che prima ancora di essere giuridica è profondamente sociale.

L’occupazione delle case, escludendo gli aspetti di pura criminalità, di sfruttamento e di speculazione ideologica, è un caso di devianza provocata da un bisogno prioritario. Questo bisogno non si soddisfa con l’assistenzialismo del salario garantito, come vorrebbero i demagoghi. Ma solo risolvendo il problema del lavoro per gente che o lo ha perso o non riesce a trovarlo e per queste ragioni si trova costretta ad occupare le case per dare un tetto alla propria famiglia.

Posta in questi termini sembra la scoperta dell’acqua calda. Con il lavoro per tutti non ci sarebbe devianza da bisogno. Ma l’indicazione di puntare sul lavoro è meno banale e peregrina di quanto possa apparire. Nelle grandi città, dove il fenomeno dell’occupazione delle case popolari è dilagante, esiste un’esigenza di manutenzione attraverso un’attività lavorativa manuale che non viene più assolta. I dipendenti comunali stanno chiusi negli uffici e, grazie alle loro tutele sindacali, non possono più essere impiegati in quei lavori, umili quanto si vuole ma assolutamente indispensabili, che dovrebbero assicurare le condizioni essenziali per la tenuta dei tessuti urbani. Si finanzino questi lavori con le tasse che oggi servono solo alle mille burocrazie delle municipalizzate. E si propongano questi lavori ai devianti da bisogno. Chi li svolgerà avrà diritto alle abitazioni. Chi si rifiuterà ne pagherà le conseguenze!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:20