Il caso Bossetti e la legge anti-tortura

Apparentemente il caso Bossetti è diventato un problema genetico. L’unico imputato per l’assassinio di Yara Gambirasio è in carcere da oltre sei mesi perché il suo Dna è stato ritrovato sugli indumenti della giovanissima vittima. Ma ora la relazione del consulente del Pubblico ministero, un ricercatore qualificato, rivela che accanto al Dna attribuito a Bossetti è stato individuato un altro Dna. Il primo di natura nucleare, il secondo mitocondriale. Che non è sicuramente del presunto assassino.

Questa scoperta ha subito sollevato una serie di interrogativi scientifici su cui si sono buttati a pesce tutte le trasmissioni televisive che sul caso Yara hanno realizzato e continuano a fare facile audience dal momento della scomparsa della ragazzina. È più importante e significativo il Dna nucleare o quello mitocondriale? Bisogna seguire la traccia nucleare per rintracciare la linea paterna del presunto assassino e quindi confermare la presunta colpevolezza di Bossetti? Oppure imboccare quella mitocondriale che porta per linea materna all’identificazione di un gruppo familiare diverso da quello di Bossetti e prendere atto che questa linea non tocca in alcun modo l’imputato in carcere?

È normale che nella società dell’immagine e dello spettacolo una vicenda del genere si presti a qualsiasi tipo di utilizzo mediatico. Ma non è affatto normale che in tutto questo dibattito su intricatissime questioni di natura genetica, che però attraggono in maniera irresistibile il grande pubblico, non faccia neppure capolino una qualsiasi e banale considerazione sulla condizione umana di Bossetti.

Nessuno può dire se l’operaio edile sia colpevole o innocente. A deciderlo sarà solo il processo che, con presupposti come quelli registrati in questi anni, si preannuncia particolarmente tormentato ed interessante. Per la prima volta la prova genetica determinante entra in un’aula di giustizia. Ed è certo che qualsiasi possa essere la sentenza che concluderà la fase processuale farà comunque scalpore.

Ma in attesa del verdetto epocale possono la questione scientifica e il caso mediatico, che da essa discende, cancellare completamente l’attenzione sulla condizione particolarmente afflittiva che colpisce ormai da più di sei mesi Bossetti? L’imputato è chiuso in carcere in stretto isolamento. La sua vita è stata pubblicamente vivisezionata e, di conseguenza, totalmente stravolta. Insieme a quelle dei suoi genitori, della moglie e dei figli. Può essere che sia il colpevole dell’assassinio di Yara. E se il processo si concluderà con questa decisione dovrà scontare tutta la pena che gli verrà comminata. Ma perché mai questa pena deve essere anticipata, e nelle maniere più dure e disumane, prima ancora che il processo accerti la verità?

Il caso Bossetti, allora, non è solo giudiziario, genetico, mediatico, ma, proprio perché diventa un caso umano diventa fatalmente e direttamente politico. La carcerazione preventiva in forma particolarmente afflittiva è compatibile con il giusto processo e con il rispetto dei diritti umani e civili proprio dello stato di diritto?

Non c’è bisogno di tirare il ballo la presunzione d’innocenza fissata dalla Costituzione per sollevare questo interrogativo. È fin troppo noto che le interpretazioni emergenziali e giustizialiste delle norme penali divenute cultura dominante nella categoria dei magistrati hanno trasformato la presunzione d’innocenza in presunzione di colpevolezza. Ma il caso Bossetti non può essere liquidato nello schema antagonista innocentismo-colpevolismo. È diventato un esempio di come nel Paese di Beccaria si sia tornati ad applicare la tortura come strumento di accertamento della verità giudiziaria.

Che aspetta il Parlamento a varare una legge contro la tortura?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:18