E per Berlusconi venne il giorno di Waterloo

Non c’è gloria alcuna nel dire “l’avevamo detto”. Eppure l’avevamo detto che, per Silvio Berlusconi, puntare sulla carta Matteo Renzi tutto il capitale politico accumulato in un ventennio sarebbe stato un pericoloso azzardo. L’elezione del Presidente della Repubblica è lì a dimostrarlo. Comunque finisca oggi la quarta votazione una cosa è certa: il vecchio leone di Arcore, dopo il prevedibile voltafaccia del suo amato interlocutore fiorentino, esce distrutto dalla partita.

Anche se il candidato Sergio Mattarella, redivivo Oscar Luigi Scalfaro, democristiano di sinistra della Prima Repubblica, non dovesse farcela le cose non cambiano. Questa è la cruda realtà. L’idea di confluire nell’ambiguo calderone del Patto del Nazareno, rinunciando di fatto a costruire, dall’opposizione, un’alternativa di sistema a questo governo, è stata una scelta sbagliata. Berlusconi puntava a recuperare spazio politico credendo di usare Renzi come tenaglia per estirpare la radice veterocomunista dal contesto di una nuova sinistra di stampo blairiano, con la quale allearsi in prospettiva. Probabilmente ha sottovalutato l’astuzia del giovanotto che, al contrario, tramava per usare la carta Forza Italia alla stregua di un fazzoletto usa-e-getta. Dopo aver trascinato il partito azzurro sul terreno delle riforme istituzionali e della legge elettorale, costringendolo ad accettare soluzioni contrarie alla propria natura, Renzi lo ha scaricato alla prima curva istituzionale. Per il Premier il bersaglio grosso da neutralizzare restava la chiassosa minoranza interna del suo partito.

Oggi lui quieta la bestia dandole in premio un antiberlusconiano della prima ora come candidato al primo scranno della Repubblica. Berlusconi ha creduto che tutti i sacrifici richiestigli valessero la decisiva contropartita della partecipazione alla scelta del nuovo inquilino del Colle. Ma sul più bello è stato messo alla porta. I dirigenti del “cerchio magico” di Palazzo Grazioli si sono affrettati a dire che il governo pagherà a caro prezzo il tradimento, o meglio, la truffa rifilata al vecchio leader, ma tutti sanno che si tratta di una minaccia che non regge. Ormai le riforme costituzionali sono incardinate, così come lo è la nuova legge elettorale. Se Berlusconi facesse saltare solo adesso il banco si assumerebbe per intero, agli occhi dell’opinione pubblica, la responsabilità del mancato ammodernamento dell’architettura istituzionale. E il cialtrone fiorentino avrebbe campo libero per andare alle elezioni anticipate. Si presenterebbe all’elettorato da vittima dei “gufi” e dei “frenatori” per chiedere agli italiani un pieno mandato a fare ciò che gli altri non gli avrebbero permesso di fare. E gli sventurati italiani, manzonianamente, risponderanno. A questo punto per il centrodestra moderato sarebbe peggio di una Caporetto.

D’altro canto, per quelli di Forza Italia pensare di cavarsela gridando al tradimento dei soliti cattocomunisti sarebbe come raccontare un’ennesima storiella e potrebbe rivelarsi rimedio peggiore del male. C’è bisogno di analisi serie e di autocritiche convincenti. A questo punto l’unica cosa sensata che potrebbe rimettere a galla il bastimento forzista potrebbe essere una totale revisione della linea politica e della governance del partito. Come chiede Raffaele Fitto, anche se sbaglia a pretenderlo mediante affermazioni ineleganti e, soprattutto, intempestive per la drammaticità anche umana della situazione. A fare da ciliegina sulla torta vi è per il condannato Silvio Berlusconi l’obbligo penale di dimorare in Lombardia per il fine settimana. Anche in quello cruciale della scelta del presidente della Repubblica.

Il “Non Expedit” imposto dalla misura alternativa al carcere è spiacevolmente divenuto la metafora di una parabola politica: nel mentre a Roma si decidono le sorti del più alto istituto repubblicano, il leader sconfitto è esiliato a Cesano Boscone in compagnia dei suoi vecchietti. Poteva finire peggio una grande storia umana e politica?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:12