Attentato a Tunisi:  la Jihad alle porte

Stanno arrivando. Il raid terroristico di Tunisi è un’altra tappa di avvicinamento al bersaglio grosso: l’Italia. Nel blitz sono morti nostri connazionali. Possiamo tollerarlo senza battere ciglio? Uno Stato, in forza del patto sociale che lo lega ai cittadini, è tenuto alla loro difesa e a garantire la sicurezza delle loro vite, ovunque essi si trovino. Dopo la strage al museo del Bardo non basta la pelosa solidarietà espressa dal governo ai familiari dei caduti.

E non bastano le parole prive di sostanza pronunciate, sull’argomento, da Matteo Renzi alla Camera dei deputati. Occorre ben altro perché si possa dire che la Repubblica abbia fatto il suo dovere. Occorre che l’infezione jihadista, che si sta propagando in Nord Africa, venga arrestata prima che si trasformi in pandemia. Tra il virus-killer dell’ebola e quello dell’integralismo islamico non c’è alcuna differenza. Entrambi sono letali, entrambi si diffondono in contesti ambientali favorevoli, entrambi si trasmettono attraverso il sangue, e le lacrime, ed entrambi non possono essere sconfitti con farmaci ordinari ma soltanto mediante rimedi terapeutici eccezionali. Fuori di metafora, l’attacco di Tunisi è una chiara azione dimostrativa contro il nostro Paese.

Non è trascurabile la circostanza che gli jihadisti abbiano agito di mercoledì, quando è noto che in porto gettano l’ancora le navi da crociera che partono dall’Italia. Così com’è noto che i turisti che sbarcano per visitare la città siano in prevalenza italiani. E non è un caso che l’azione abbia avuto luogo in un museo che raccoglie le vestigia dell’antica civiltà romana. I nostri pavidi governanti si sono affrettati a negare ogni collegamento in tal senso. Per loro si è trattato soltanto di un colpo alla fragile democrazia tunisina, figlia unica di madre vedova in terra d’Africa.

A sentirli, la crisi libica non c’entrerebbe con i morti del Bardo. Balle! La verità è che non può essere più rinviata la neutralizzazione del focolaio dal quale si sta propagando il contagio. Non c’è più tempo per le soluzioni a tavolino. Non possiamo attendere che finisca il gioco del tira-e-molla tra Tripoli e Tobruk. Se le coalizioni in guerra non hanno trovato da sole un accordo, è bene che sia la comunità internazionale a prendere l’iniziativa. Ci auguriamo che di questo abbiano parlato Renzi e Gentiloni con il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, giunto ieri l’altro in visita in Italia.

La nostra componente militare è pronta a intervenire. Si tratta di andare a togliere le armi dalle mani delle milizie per costringerle a negoziare il futuro del loro Paese. Fatto ciò c’è da pensare all’Is. Con gli jihadisti non è previsto negoziato: vanno terminati, come si dice in gergo. Su questo fronte si potrebbe già fare qualcosa. Visto che il califfato ci ha dichiarato guerra e quelli che hanno agito in Tunisia si richiamano all’autorità di Al-Baghdadi e alla giurisdizione dello Stato Islamico, è diritto sovrano dell’Italia di reagire all’uccisione dei propri cittadini mediante un’azione di rappresaglia.

La nostra intelligence è a conoscenza dei luoghi dove sono ubicati i campi di addestramento alla Jihad, sia in Libia, sia in Tunisia. Non sarebbe sbagliato se la nostra forza aerea procedesse a un bombardamento delle postazioni dei terroristi a scopo punitivo. Nell’attesa che il bon ton della diplomazia produca i suoi effetti, non sarebbe male incominciare con le maniere forti: quelle le capiscono tutti. E poi, non dovremmo qualcosa anche a quei poveri cristi che ieri l’altro ci hanno lasciato la pelle? O pensiamo di cavarcela con la solita marcia della pace con tanto di candeline accese e di cori in stile festival di Woodstock?

 

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:16