Milano, se poi   si dimette la città

Prima la mia Inter (perdonatemi!) venduta ad un finanziere indonesiano - interessante capitalista e investitore, ma non milanese e neppure italiano e neppure della Ue - dopo il Milan, che è pur sempre il Milan, in pegno agli Emirati. E siamo solo agli inizi. Sì, perché Letizia Moratti ha bensì conquistato per Milano l’Expo, la vetrina mondiale del rilancio e della giubilazione universale di una città che se lo merita, ma poi ecco che ti arriva l’arancione Giuliano Pisapia, gran brava persona pure lui, che deve gestirla di qui a due mesi circa per altri sei. E che fa, che fa Giuliano? Annuncia di non volersi ripresentare come sindaco l’anno prossimo. In pratica, si dimette.

Ma non è finita, perché a stretto giro di internet ecco che irrompe la notizia che ti gela: quelli del Qatar, cioè di Al Jazeera (gran bella tv ma con qualche ombra per simpatie proibite e pericolose), hanno comprato i più bei grattacieli di Milano, compresa la loro skyline che fa scoppiare d’invidia tutte le altre città. Parlano la lingua del profeta gli emiri ma i loro fondi hanno un linguaggio universale. “Last but not least”, ecco che la Cina è talmente vicina che, già che c’era, ha comprato la Pirelli, dico la Pirelli, rappresentata dal grattacielo di Gio Ponti. La più antica fabbrica di gomme è finita a Pechino. I soldi cinesi non puzzano.

Tre colpi da ko, tre shock. In una settimana, quella che noi chiamiamo identità, ciò che più sta vicino al cuore e alla mente ed è addirittura intrinseco al nostro ego esistenziale, alla storia sua personale e collettiva costituendone il dna, è stato sperperato, dismesso, venduto. Ora manca solo che si portino via la Madonnina e l’ultimo spenga la luce. La decisione di Pisapia di non ripresentarsi è stata la ciliegina sulla torta, il finale che mai ci saremmo aspettati, il colpo che mancava all’autodistruzione di una storia, (e che storia!) la nostra.

Gli immigrati che arrivavano a Milano negli anni ‘50 e ‘60 guardavano in su verso il Pirellone, sospiravano e inghiottivano la nebbia (che allora c’era) preparandosi al lavoro dell’indomani, alle famiglie da ricomporre, come quelli di “Rocco e i suoi fratelli” che nella metropoli lombarda si rifanno una vita degna di questo nome. La Pirelli, col “Pirellone”, ieri faceva parte di una storia e di un’identità. Oggi, non lo so. E con i grattacieli che offrono il profilo ardito e innovatore di una Milano che è antica e nuova allo steso tempo, che conserva il meglio e offre la modernità, e passato e presente si coniugano nella sua essenza, nella sua narrazione dei secoli. E allora, vendiamo i grattacieli al Qatar. Va bene così, dicono in molti, i soldi girano, arrivano, Milano ne ha bisogno, il mercato è questo, e la globalizzazione.

E tuttavia. Tuttavia, guai a parlarne nelle tv, grandi e piccole, un silenzio assordante; guai a mettere il dito nell’occhio di lor signori che vendono e incassano e portano a casa i soldi per sé, alienando una parte di noi stessi. Chi ha aperto un dibattito? Chi ha lanciato un grido d’allarme? Quale canale locale o nazionale ha dedicato più di un minuto a queste vicende? Tutti zitti e mosca. Viceversa, tutti a parlare, a urlare e a sventolare cappi per i sottosegretari che non si dimettono e per il Rolex del figlio, e per i vitalizi e la corruzione senza fine della casta. E giù insulti e massacri, telefonate e inseguimenti per strada, gracchiare di minacciose interviste al citofono. E twitter e ancora telefonate furibonde “che non se ne può più signora mia e i politici fanno tutti schifo, sono tutti ladri, e che la colpa è a monte, è della sinistra ferroviaria”. Ecco, hanno trovato il colpevole, bastava risalire a trenta e più anni fa. È lui il fulcro, la miccia, il capro espiatorio: il socialismo, la sinistra ferroviaria, il Psi degli anni ‘80. Complimenti! E intanto se ne vanno via i nostri simboli, le nostre cose più care, i nostri tesori più invidiati, il cuore di una città. A suon di miliardi, non di investimenti, ma di incassi.

Se Pisapia non si ripresenta, nonostante l’Expo in arrivo, facile pronosticare una stasi nel Comune e l’avvio di una guerra civile di primarie e di candidature a go go nella sinistra, una mattanza politica sulle spoglie di un sindaco galantuomo che, almeno dalle sue immagini in tv, ha mostrato la stanchezza, la sofferenza e soprattutto la solitudine e la malinconia per l’esito infelice del laboratorio arancione e delle variegate società civili che hanno fallito un po’ ovunque. In compenso, a destra, Matteo Salvini si auto-propone in una città che sa benissimo quanto la Lega abbia fallito e che ricorda, e come se ricorda, le leggendarie ronde invocate dal Salvini anti-Moratti e poi, per fortuna, il ministro leghista Roberto Maroni e il buon Ignazio La Russa, ci misero, al loro posto, le camionette dell’esercito.

A parte il fatto che il messaggio elettorale dalla Francia non è propriamente un inno alla svolta lepenista di Salvini. Eppure, pensandoci bene, che colpa ne ha Salvini se Forza Italia è ridotta così? Fi o il Pdl, insomma il Cavaliere, meno di quattro anni fa avevano la città, la provincia, la regione, il Paese. E una proposta, un progetto, un futuro da trasmettere. Adesso non c’è quasi più niente, salvo qualche isolato grido che si leva sulle macerie di quella che fu la grande Milano, culla del riformismo e, anni, anni dopo, del Cavaliere. Anche Milano si è dimessa.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:10